L'inizio e la fine di "Assalto al cielo" tracciano in maniera esemplare la parabola disegnata dalle lotte politiche che tra gli anni sessanta e settanta animarono la vita del nostro paese, arrivando a destabilizzane la struttura civile e sociale con le derive di violenza e di stragismo che direttamente o meno ne furono conseguenza. Se infatti le sequenze iniziali, contrassegnate dall'idealismo non violento di chi credeva, primo fra tutti i ragazzi del movimento studentesco, di poter rovesciare i rapporti di forza tra potere e cittadino e, in particolare, tra capitale e lavoro, con la giustezza dei propri principi e a cui il regista Francesco Munzi regala la sonorità ingenua e appassionata di "Un cuore matto" di Little Tony, quelle conclusive, relative al festival di "Re Nudo" organizzato nel 1976 a parco Lambro in cui le immagini della popolazione vietnamita stremata dalla guerra lasciano il posto all'utopia di chi, rendendosi conto di non poter cambiare il mondo dimentica gli altri e si ripiega su se stesso.
Rispetto a questi antipodi "Assalto al cielo" costruisce tre accordi (tanti sono i capitoli in cui il film è diviso) storico sentimentali che da una parte si prendono la briga di seguire in modo cronachistico gli sviluppi dello scontro tra lo stato e i giovani rivoluzionari, con le manifestazioni di piazza e le occupazioni universitarie destinate a macchiarsi di sangue attraverso le persecuzioni e le rese dei conti che da esse si scatenarono; dall'altra, hanno l'intento di restituire il clima di quei giorni attraverso lo slancio che ne muoveva i protagonisti. Dagli attentati di Piazza Fontana a Milano (1969) e Piazza della Loggia a Brescia (1974) alla scomparsa dei brigatista Walter Alasia la cui morte, avvenuta per mano di due agenti delle forze dell'ordine che cercavano di arrestarlo è raccontata dalla madre in una delle sequenze più toccanti di tutto il film, "Assalto al cielo" isola uno dei momenti più importanti della storia d'Italia - quello che dopo l'ottimismo degli anni sessanta precipitò il nostro paese in una sorta di guerra civile (si parla di "colpire il nostro avversario" riferendosi alle strategie da tenere nei confronti dei nemici politici e statuali e contro le forze dell'ordine prima di tutto, ripetutamente colpite nel corso delle cruente manifestazioni di quel periodo) - rivisitandolo attraverso le parole dei protagonisti meno noti, quelli che lontano dagli schermi televisivi e al di fuori dei partiti alimentarono il dibattito ideologico e la lotta politica. Da questo punto di vista la scelta di non utilizzare alcune voce over e di far scaturire il commento delle immagini dalle parole dei vari interlocutori fa arrivare con maggior forza la passione e la fiducia nelle proprie idee che animava i manifestanti.
Se l'analisi compiuta da Munzi nella selezione del materiale d'archivio non nasconde niente a proposito delle contraddizioni a volte insanabili che i vari movimenti e prima di tutto quello studentesco si portarono dietro nel passaggio dalla teoria alla pratica, quando cioè si trattò di conciliare l'universo intellettuale e universitario da cui nascevano quelle idee con le ragione di chi più di tutti doveva esserne il beneficiario e cioè il proletariato che lavorava nelle fabbriche, ciò che emerge durante la visione del film è il paragone che scaturisce dal confronto con la realtà dei nostri giorni e la constatazione di come l'afflato e anche le ingenuità delle parti in causa, al di là della questioni contingenti proposte da quegli anni, siano diventate oggi puri reperti archeologici, del tutto, o quasi, assenti nelle generazioni coeve a quelle che sono protagoniste del film. Il dato antropologico si affianca allora a quello contenutistico facendosi preferire per il coinvolgimento emotivo che produce in coloro che riconoscono sullo schermo le loro vite o quelle dei propri genitori confermando un'attitudine al sociale che non è mai mancata nel cinema del regista romano.
(pubblicata su ondacinema.it)
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