Regia di Bruno Chiaravalloti, Benedetta Argentieri, Claudio Jampaglia vedi scheda film
È la nostra guerra. Ma lasciamo che altri la combattano per noi.
Combattono una guerra non loro. Ma non chiamateli mercenari. Il fronte è straniero, lontano dalle loro terre d’origine, la causa è estranea alle loro vite. Eppure sono lì a sparare, ad uccidere, a rischiare la vita. Non lo fanno per fanatismo o per fede. Lo fanno e basta, perché ne avevano il desiderio, perché credono sia giusto così. Rafael, Karim e Joshua sono partiti dalla Svezia, dall’Italia, dagli Stati Uniti per andare in Siria ad affiancare i soldati curdi che resistono all’avanzata dell’Isis. Spiegarne i motivi e parlare di sé è tutt’uno. Si sono lasciati alle spalle un’esistenza che non permetteva alle loro idee di esprimersi, di trovare la piena realizzazione, di mettersi al servizio di un’umanità che grida aiuto. Hanno risposto a un richiamo individuale, forse a una passione, forte, irrazionale e venata di incoscienza come sono spesso quelle dei giovani: una di quelle pericolose e violente, che automaticamente si condannano, ma che, in questo caso, non si esauriscono in un attimo di ebbra follia. Sono scelte che comportano un lungo investimento nel tempo; che tengono inchiodati per mesi, che richiedono di rinnovare ogni giorno un impegno durissimo e disperato. Sono creatrici di storie che si possono scrivere e ripetere, stando seduti a raccogliere ricordi, ma anche andando in battaglia con una macchina da presa, correndo nella polvere, fuggendo ai ripari non appena si sentono i colpi di arma da fuoco. L’obiettivo entra in trincea, inquadra un ambiente ostile attraverso la feritoia di una postazione di tiro, dentro il foro aperto nel muro da un grosso proiettile. La spinta ideale dei tre protagonisti si traduce in un fiume di parole riversato sui silenziosi momenti di pace, e in una frenesia d’azione nei concitati attimi della guerra, dove non c’è spazio da dedicare al pensiero, e il nemico è tanto reale quanto invisibile. Questo film si ripromette di mostrarci ciò che la cronaca non ci rivela, perché è troppo carico di paradossi, alcuni confinati nella dimensione dell’indescrivibile, che non si può catturare in immagini televisive, né ingabbiare nei soliti schemi mentali. Ci racconta una parte in ombra del nostro presente, ben più provocatoria di quella dei foreign fighters votati al martirio islamista, la cui perversione si può facilmente gettare nella discarica delle cose maledette e sbagliate. In Our war tre dei nostri ragazzi spingono alla radicalità ciò che noi, nella distante comodità delle nostre roccaforti mediatiche, riteniamo assolutamente sacrosanto. Offrono i loro corpi a quella che amiamo raffigurarci come l’impresa tecnologica di un videogame, affidata ai tanto vituperati potenti, dei quali, questa volta, siamo ben contenti di poterci fare scudo. È importante sapere che qualcuno non ci sta. È doveroso tenerlo presente, per non dimenticare che la ragione a nulla vale - ed in effetti equivale al torto - se nulla si è disposti a fare in sua difesa.
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