Regia di Christopher Murray (II) vedi scheda film
Michael vive in una landa sperduta del deserto cileno. Il padre non si alza più dal letto da quando è morta la madre e, cosa non meno grave agli occhi del figlio, ha perso la sua fede in Dio. Per Michael, l’Altissimo ha un ruolo fondamentale dal momento che sin da piccolo è convinto di essere un novello Cristo in grado di poter compiere miracoli e dispensare guarigioni. A trasformarlo simbolicamente in Cristo è stato il suo miglior amico, che dietro sua espressa richiesta gli ha piantato due chiodi nelle mani operando una simbolica crocefissione.
La sua vita sembra scorrere tranquilla fino al giorno in cui apprende dell’incidente che in un villaggio lontano qualche chilometro ha mandato fuori uso la gamba dell’amico. Deciso a realizzare il suo primo vero grande miracolo, Michael parte a piedi nudi per raggiungerlo dando inizio a una personale via crucis fatta di soste e fermate prima della Resurrezione finale.
Lungo la strada, a ogni sosta, ha la possibilità di incontrare i più disparati disperati, una rappresentanza dei mali che affliggono la sua terra e che sperano in una sua intercessione. Così come cantava De Andrè, la notizia originale non ha bisogno di alcun giornale e come una freccia che scocca vola veloce di bocca in bocca: in breve tempo, tutti sanno chi è Michael e da lui attendono un dono ognuno un dono mistico. Un disperato che si fa di crack spera in una disintossicazione, una donna chiede intercessione per la madre malata, qualcun altro lo invita a officiare dei battesimi e così via: la miseria alberga da quelle parte e Michael ne è inevitabilmente testimone, sia diretto sia indiretto (ascoltando le storie a lui narrate da terzi). Sullo sfondo di una terra martoriata da anni di sfruttamento minerario, da un clima non certo amico, Michael ha anche l’occasione di forgiare un particolare legame con un ragazzino poco più giovane di lui e con la madre di questi, una donna sfuggita alle violenze domestiche con cui non disdegna di spartire un improvvisato talamo coniugale. L’arrivo a destinazione, però, non avrà la conclusione che Michael sperava, aprendo improvvisamente gli occhi sul concetto di fede, sul suo significato e sul disincanto che comporta.
Con El Cristo ciego il giovane Christopher Murray porta in scena una anomala storia di formazione al contrario (o di de-formazione, come amerebbero definirla gli amanti dei prefissi) connotata da una forte componente realistica e di denuncia. Mentre il protagonista Michael va alla ricerca della sua identità destrutturando il suo credere in Dio e il suo rifugiarsi nella fede, lo spettatore viene catapultato in un contesto antropologicamente interessante, in cui ogni uomo diventa veicolo di denuncia sociale nei confronti di un governo assente, di una forza di polizia inesistente, di una sanità invisibile, dello sfruttamento delle multinazionali e della natura matrigna. In un lembo di terra dimenticata da Dio, l’unico a credere in Dio e nella sua parola è Michael. Costretto finalmente ad aprire gli occhi dalla cecità imposta da un integralismo non violento, Michael smette di essere cieco quando entra in campo la sfera emotiva: convinto di poter guarire la gente con la sola imposizione delle mani, si renderà conto che la sua è una mera illusione quando colui che deve sottoporre a guarigione è l’artefice umano della sua trasformazione in Cristo. Ragione, sentimento e fede, rappresentano ancora una volta una triade non comunicante.
Aprire gli occhi sembra essere così un invito su larga scala rivolto a tutti coloro che ancora oggi, purtroppo, che la religione sia la panacea di tutti i mali quando intorno non c’è nessuna traccia di un dio, ammesso che un dio esista. Impeccabilmente girato e fotografato, El Cristo ciego ha un solo difetto: le troppe microstorie (reali, interpretate dai diretti interessati trasformati dal regista in attori), diretti o indiretti, pensati come excursus della miseria circostante, finiscono per spezzare la linearità del racconto e distraggono. Una maggiore soluzione di continuità avrebbe garantito maggior pathos ed empatia con la dura realtà e con il protagonista. La freddezza e la rassegnazione dei personaggi non è d’aiuto a Murray, che deve ancora imparare a commuovere, nella sua accezione più larga, ovvero a destare sentimenti di reazione.
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