Regia di Andrey Konchalovskiy vedi scheda film
Esistono diverse concezioni del Paradiso. Quello religioso, per esempio, che deve ammettere per antitesi l'esistenza dell'Inferno, e quello ariano, che Helmut, giovane comandante delle SS, desidera per la nazione tedesca. Siamo agli sgoccioli della seconda guerra mondiale quando Olga viene arrestata per aver nascosto e aiutato due bambini ebrei in un appartamento. Viene interrogata da Jules, a cui Olga offre le sue grazie in cambio di non essere giustiziata. Il Caso, ma soprattutto la Storia, avranno piani diversi per lei, soprattutto con l'ingresso in scena di Helmut e gli interventi violenti della Resistenza.
Paradise di Andrej Konchalovskij decide di adottare un'estetica apparentemente scarna e imbalsamata, in bianco e nero, per raccontare di tre personaggi intrappolati in uno strano limbo fra la Vita e la Morte, costantemente in tensione per il loro ruolo nelle vicende nazionali, e per le costanti contraddizioni in cui si vedono sommersi e che li costringono (e costringono anche noi spettatori) a mettere in discussione le loro posizioni e le loro scelte. La trama, che vede Olga finire in un campo di concentramento, poi individuata da Helmut come conoscente del primo Dopoguerra, è scandita proprio dalle scelte e dalle azioni dei personaggi, in un torrente narrativo mai schematico e pedante, bensì lento e trascinante, soppesato da una regia potremmo dire "fotografica" in cui le inquadrature sono istantanee decentrate di ambienti chiusi e asfissianti (mesti a prescindere dalla loro ampiezza), quando non simulano un filmato di repertorio e non aggiungono addirittura i tratteggi di una bobina all'antica rovinata.
Piuttosto che utilizzare una rischiosa voice over triplicata, Konchalovskij alterna le scene al monologo dei tre personaggi, inserendoli in uno strano limbo che ha del sovrannaturale, ma che è tanto immerso e intrecciato con gli eventi storici da non poter non assomigliare a una sala per interrogatori. In questi inframmezzi, primi piani semplici, resi espressionistici dalle espressioni dei personaggi, si confrontano direttamente con lo spettatore, e descrivono le loro azioni e i loro comportamenti in maniera particolare, come se ogni cosa che dicono rimbalzasse sulla pellicola e ritornasse a loro, in una frustrante dinamica verbale che non riesce, almeno nell'istantaneo, a liberarli dei loro pensieri.
Le scelte di regia sono schiette e brutali. La cinepresa oppone come già detto due maniere, quella della simulazione del filmato di repertorio, e quella propriamente finzionale, che cioè non ricerca alcun tipo di simulazione. Se la prima segue qualsiasi azione avvenga in scena (e la regia si presenta in questa forma solo poche volte, spesso in ambienti esterni, e spesso dal di fuori di una rete divisoria, o da una distanza che dà l'idea della cronaca vera e propria), la seconda dispone la mdp in angoli insoliti o al di fuori degli spazi dove avviene l'azione. Konchalovskij evita l'effetto teatrale facendo sì che i suoi spazi non siano mai palcoscenici che soddisfino le aspettative dello spettatore; anzi, il più delle volte, delle pareti divisorie, o degli infissi di porte, o semplicemente degli ostacoli visivi, proibiscono la visione su un'intera parte di ambientazione (sia che si tratti di una parte sinistra visibile e di una destra invisibile e viceversa, sia che si parli di una parte alta visibile e una bassa invisibile e viceversa), conferendo così un senso di disorientamento e angoscia ed evitando una più banale macchina a mano. Il risultato conclusivo è abbagliante e attonito, e non ha bisogno dello shock per sconvolgere.
Teso come una corda di violino in un ritmo indefinito che non eccede né in azione né in dialoghi, Paradise si va ad aggiungere alla differenziatissima produzione del regista sovietico, che da Asja Klachina di strada ne ha fatta eccome. Il suo è quasi un cinema apolide, sempre legato in un modo o nell'altro alla sua lingua madre, ma comunque schizofrenicamente diviso in più frangenti, come in un'irrisolta scissione culturale. Il suo è soprattutto, però, un cinema senza tempo, che non segue né mode né avanguardie, ma che ha una sua strada più particolare, la quale non disdegna il racconto tradizionale, seppur portato ad equilibri che lo rendono sempre moderno e suggestivo. Paradise rientra senza dubbio tra i film più belli del concorso di Venezia 73.
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