Regia di Andrey Konchalovskiy vedi scheda film
Venezia 73 – Concorso ufficiale.
Due anni dopo aver vinto il Leone d’argento per la miglior regia con l’invisibile The postman’s white nights, Andrei Konchalovsky ritorna al Festival di Venezia bissando il riconoscimento e ancora una volta la sua opera si candida per essere ricordata come una tra le migliori della manifestazione.
Il tema che fa da sfondo, l’Olocausto, è fin troppo battuto, ma l’autore riesce a infondere una precisa fisionomia, per quanto poi ci sia il rischio di leggerci malizia nell’abbinare l’arte (alta) al soggetto (che arriva sempre dritto in fondo all’anima).
Seconda Guerra Mondiale, in Francia, quando la sua unica possibilità di salvezza Jules (Philippe Duquesne) non può più esserle d’aiuto, la nobile russa Olga (Yuliya Vysotskaya) è deportata in un campo di concentramento per avere nascosto due bambini ebrei.
Qui s’imbatte in Helmut (Christian Clauss), un importante ufficiale tedesco che aveva già conosciuto in passato
Potrebbe essere la sua unica possibilità di salvezza.
Guerra, con le sue divisioni tra chi sale sul carro dei (presunti) vincitori e chi cerca con coraggio di fare la cosa giusta, Olocausto, con le sue atrocità, e paradiso, con i suoi crocevia, tre soggetti tematici per tre personaggi al bivio, quello definitivo.
Già dal titolo - anche se poi si potrebbe ancora e comunque pensare a qualcosa di più terreno o consuetudinario - Paradise anticipa la sua essenza, con una possibile redenzione che è lì, spetta ai personaggi, e per interposta visione a noi, ottenerla.
Così, quello che in prima battuta sembra essere un triplo interrogatorio processuale a bocce ferme, in realtà non lo è, si potrebbe dire che la prima dipartita semina un indizio, oltre che, in un altro significato del termine, un personaggio, fatto che fa precocemente intuire il tipo di procedura.
Poco male - comunque non sarebbe bastato cambiare una virgola per disseminare un maggiore alone di mistero – perché la storia conserva dei contenuti incontrovertibilmente forti, sbilanciamenti nei rapporti che mantengono il filo del racconto sempre teso e soprattutto trova nel ragguardevole profilo estetico quello scarto che coniuga la storia con l’arte; il bianco e nero non è un semplice, quanto meraviglioso, vezzo, ma un modo per caratterizzare al meglio la scena con l’utilizzo delle luci (come quella entrante da una finestra che pone in rilievo un personaggio piuttosto che un altro), ma anche la composizione, con personaggi spesso scagliati, per di più in costante alternanza, agli estremi dello schermo, è ricercata quanto facile da percepire e di conseguenza assimilare.
Molto espressivi gli interpreti principali, Yuliya Vysotskaya impressiona come se fosse uscita da un dipinto lacerante - quello di Andrei Konchalovsky lo è a tutti gli effetti - mentre Christian Clauss è altresì efficace, folle e acuto.
Così, dall’alto delle sue qualità - come un’ambientazione dominante e ottenebrante, uno stile raffinato, con il rischio che quest’ultimo risulti fin troppo estetizzante, o ancora per un’ultima mezz’ora nella quale percepiamo il fiato sul collo della risoluzione degli eventi - se fosse diretto da un regista americano e interpretato da un paio di star di Hollywood, Paradise sarebbe già in lizza per accaparrarsi i principali premi dei prossimi mesi.
Intenso, di gran suggestione, non solo nei confronti di chi è avvezzo al cinema d’autore (e dell’autore russo).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta