Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Per comprendere i meccanismi del cinema di Lav Diaz è importante ragionare sul primato che il regista filippino assegna alla Storia. Le sue narrazioni, infatti, non sono inserite su uno sfondo più o meno imprecisato ma si svolgono in contemporanea e per naturale conseguenza di eventi epocali nelle memoria del paese. "The Woman Who Left", per esempio, è collocato dal punto di vista cronologico verso la fine degli anni 90 (e precisamente nel 1997), tristemente ricordati per la grave crisi finanziaria che colpì il mondo asiatico e le classi meno agiate, ridotte in povertà dagli effetti della dilagante corruzione. In più la sinossi del film ci informa che la vicenda di Horacia Somorostro (Charo Santos-Concio, per l'occasione tornata a recitare), discolpata dal delitto che non aveva mai commesso e rimessa in libertà dopo trent'anni di detenzione, è ambientata a Mindoro, isola dell'arcipelago filippino che all'epoca dei fatti narrati nel film apparteneva alla regione autonoma della Cordigliera, che si era organizzata per protestare contro la legge dello stato che aveva privato i contadini di buona parte delle terre coltivabili scatenando una dura repressione da parte del governo.
La scelta di circoscrivere i fatti e di dargli un nome e un cognome non è casuale. In fondo, Diaz potrebbe farne a meno, senza precludere al suo lavoro la possibilità di identificarsi con le tribolazioni degli umiliati e offesi. Al contrario, la decisione di fissare delle coordinate spazio-temporali equivale a mettere la firma sulla presa di posizione - militante e politica - assunta dal suo lavoro che non si limita a schierarsi dalla parte dei più deboli ma che fa di diseredati e oppressi il principio e la fine di tutte le cose. Diaz delegittima il potere togliendogli ogni spazio e, dal punto di vista cinematografico, lasciando letteralmente fuori campo non solo il potere ufficiale, ridotto alla fugace presenza della direttrice del carcere che annuncia a Horacia la fine della pena, ma anche quello fuorilegge, rappresentato dal boss di quartiere ed ex marito della donna che vive recluso nella sua casa (e perciò fuori dall' obiettivo della mdp) per il timore di essere ucciso.
La militanza e il senso di appartenenza espresso da "The Woman Who Left" e, di fatto, anche il primato assunto dal regista agli occhi dello spettatore non fanno correre a Diaz il rischio di passare dalla parte del diavolo, trasformando le vittime in carnefici. Quello che conta e che in fondo costituisce la piccola rivoluzione compiuta dal cinema di Diaz non è tanto la centralità assegnata alla sacralità di Horacia e alla famiglia di reietti che incrocia il suo cammino, bensì la generosità del tempo che il regista gli concede per recuperare la propria dignità. Tolti di mezzo dalla Storia che li ha usati e poi dimenticati, i protagonisti di "The Woman Who Left" vengono risarciti dalla lunghezza estenuante dei piani sequenza (a camera fissa) con cui Diaz subordina il suo sguardo alla dispersiva anarchia di chi non ha più niente da perdere né da fare, e dal bianco e nero di una fotografia (dello stesso Diaz che ha curato anche il montaggio) che altera la realtà fino a far diventare poesia le notti insonni e disperate del venditore di Balut e del travestito a cui Horacia si rivolge e offre aiuto con la misericordia delle poesie di Leopardi e dei romanzi di Camus. Una santità, quella della protagonista che non è per tutti; come il film di Lav Diaz che scandalizza e scoraggia per la sua sconcertante bellezza.
(ondacinema.it/speciale 73 festival di Venezia)
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