Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Imprescindibile tassello di una filmografia densa e corposa che sa unire impegno civile/politico ad una rappresentazione poetica ed ispirata della vita di comunità dei borghi più isolati e poveri, il cinema di Diaz riesce ad essere dirompente col il suo b/n tutto riverberi e chiaroscuri potenti, e tagli di ripresa che paiono quadri d'autore.
Liberamente ispirato ad una novella di Tolstoj, torna in grande e prolifico regista filippino Lav Diaz, conteso più di ogni altro cineasta da ogni festival internazionale.
Questa volta come in "Norte", risalta più che in ogni altro suo lavoro, uno stile di esposizione della vicenda maggiormente lineare e narrativo (oltre che conciso, si fa per dire, ed in rapporto a certe altre sue opere fluviali), tanto da divenire questo film consigliabile come primo approccio verso l'autore da parte di chi ancora non ha affrontato il cineasta prima d'ora.
A fine anni '90 la detenuta Horacia, trent'anni di carcere scontati con l'accusa di omicidio e scontati esercitando il ruolo di maestra per i figli delle detenute della sua sezione, viene improvvisamente rilasciata dopo che la vera colpevole confessa le proprie responsabilità.
Incredula, la donna si vede catapultata in una realtà che ormai non riconosce più, e sceglie di tornare nei luogho natii rispettando uno scrupoloso anonimato: ritrova la figlia, e le racconta come finì in carcere accusata di un omicidio commesso in realtà da una complece del marito Rodrigo, ora potente boss del quartiere, all'epoca geloso ed incapace di sopportare che la donna lo avesse lasciato per un altro uomo.
Pur dichiarando di non volersi avvalere di avvocati per richiedere alcun opportuno rsalrcimento economico per i danni subiti in seguito ad una così lunga ed ingusta detenzione, Horacia intraprende una ricerca tutta sua personale, percorrendo le strade della cittadina di notte, da sola, spesso travestita o celata in panni maschili per non essere conosciuta.
Nel contempo viene a contatto con una umanità di diseredati che in qualche modo le placano od affievoliscono quel desiderio di vendetta comprensibilmente maturato dopo una vita da reclusa innocente.
E la circostanza le consente di venire in contatto con un travestito di nome Hollanda, malmenato quasi a morte, preso in cura dalla donna.
Inquadrature fisse con tagli aperti su panoramiche che lasciano spazio a tempi contemplativi pertinenti alla lunghezza delle riprese, una certa ossessione contemplativa che ha reso grande e poetico il cinema del gran regista filippino, che qui pare quasi rifuggire l'opulenza della naruta per concentrarsi su scorci cittadini di quartieri popolari ove regna la povertà e la mesta arte di sopravvivere con le poche risorse circostanti.
Come sempre Diaz si prende i tempi contemplativi che gli servono per firmare una nuova grande opera, tuttavia pregna di conteuti narrativi, in una storia di espiazione e vendetta che s tramutano presto in un sentimento di tolleranza e di mutuo soccorso: circostanza vera ed unica che riesce, almeno a tratti, ad appagare la sensazione di vuoto che il ritorno alla vita ha creato attorno ad Horacia, incredula di trovarsi attorno un mondo corrotto e soggiogato dalla prepotenza, considerando la dtenzione quasi un limbo sospeso di pace e tranquillità trascorso a istruire minori sfortunati e disagiati, al di fuori di una relatà sempre più allo sbando e schiava della corruzione e dello strapotere di cosche criminali in grado di governare con indiscussa priorità sulle leggi dello stato.
The woman who left si pone domande cruciali sull'esistenza: la maggior parte delle quali non riesce ad avere una risposta, almeno per Horacia, che inizia a vivere con trent'anni diritardo e deve affrontare tutti assieme i drammi di una società che in tre decenni non ha fatto che degradare, economicamnte, moralmente e civilmente.
Ulteriore imprescindibile tassello di una filmografia densa e corposa che sa unire impegno civile e politico in grado di esprimere senza veli o mezze misure le proprie personali e legittime riserve su una condotta morale sempre più vergognosamente dilagante verso la corruzione da parte del popolo e delle istituzioni filippine - ad una rappresentazione poetica ed ispirata della vita delle comunità rurali o cittadne dei borghi più isolati e poveri, il cinema di Lav Diaz riesce ad essere dirompente col il suo bianco e nero tutto riverberi e chiaroscuri potenti, e grazie a tagli di ripresa che paiono quadri d'autore altamente descrittivi in cui pare indispensabile fermarsi anche minuti interi in rapita contemplazione.
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