Regia di Lav Diaz vedi scheda film
"Immagini che tentano di liberarsi dall'accumulo di aria umida, dal loro mondo degli orrori": è in linea di massima questa la frase estratta dal testo filippino che Horacia fa leggere a una bambina della prigione, nei primi dieci minuti di The Woman Who Left. Nel bel mezzo di una descrizione, Lav Diaz esplicita quello che lui vuole siano le sue immagini, cioè a dire piccole prigioni in cui l'esterno esplode silenzioso oltre i bordi, e l'interno è, pur nei suoi spazi più o meno estesi e profondi, una gabbia per criceti.
Melodramma della vendetta e della solidarietà, The Woman Who Left è l'ultimo film del regista filippino dopo Lullaby to the Sorrowful Mystery presentato a Berlino, e prosegue il percorso del Diaz "narrativo", se così lo possiamo chiamare, inaugurato con From What Is Before. Più che narrativo, cronachistico, nonostante non manchino spesso i rimandi e le dimensioni intrecciate di film di ben altra complessità come Century of Birthing o Melancholia.
Horacia viene rilasciata dopo 30 anni di prigione per omicidio quando arrestano il vero colpevole; decisa a incontrare e forse a vendicarsi dell'uomo che la tradì, Rodrigo Trinidad, divenuto un pezzo grosso, la donna si trasferisce nel suo paese d'origine mantenendo la sua stessa identità di giorno, e vestendosi da uomo la notte. Le perlustrazioni di Horacia dei luoghi e delle strade che Rodrigo Trinidad raramente percorre, accompagnato sempre dalla sua scorta di ferro, concedono a Diaz di creare, come al solito nei suoi film, un microcosmo di esseri umani. Diversamente dai film precedenti, The Woman Who Left soddisferà i fanatici della connotazione psicologica dei personaggi, in quanto il regista filippino qui è precisissimo nel delinearli e definirli. Nonostante la persistente riflessione sull'identità, pochi sono i dubbi riguardo i contorni (fisici e psichici) del personaggio della stracciona volgare Manang, del gobbo venditore di balut (particolari uova filippine), dell'omosessuale Hollanda e dell'obesa litigiosa. Sono tutti componenti di una giostra lenta e precisa, che scandaglia uno a uno con precisione quasi superflua.
Molto è concesso anche alla linearità narrativa, rispetto ai lavori precedenti del regista. Ciò non è necessariamente un male, anzi, costringe Diaz a mettere in gioco il suo rigore, se riesca a non comprometterlo pur ammettendo chiari passaggi logici ed evidenti collegamenti di causa ed effetto. Il risultato alla fine è decisamente positivo: The Woman Who Left non è solo "più disponibile" per lo spettatore novello del cinema del regista filippino, ma è idealmente il film perfetto per iniziare a esplorare la filmografia sconfinata di Diaz.
Le Filippine di Lav Diaz sono sempre Filippine martoriate e non destinate alla sopravvivenza. Più che mai l'umanità di The Woman Who Left rappresenta un popolo che cerca di rimettere insieme i pezzi dopo le tragiche degenerazioni storiche del '900 (dalla dittatura al protettorato inglese, della liberazione dal quale si dice all'inizio del film tramite la radio). Ma come poteva avvenire per un Franz Biberkof nella Germania del primo Dopoguerra, le Filippine per Horacia, dopo trent'anni, sono del tutto cambiate: le gerarchie sovvertite, i colpevoli sempre e comunque nei posti più alti, la povertà e la disperazione sempre più diffuse. Il tentativo di Horacia sarà dunque quello, tracotante sulla carta, di accostare l'atto eroico più estremo, all'atto più deplorevolmente vendicativo, sullo sfondo di un incipiente Apocalisse.
Diaz intanto esplora inquadrature magari già indagate in passato, ma mai scandagliate a livelli così estremi: non chiarisce dove debba posarsi l'occhio dello spettatore, su quale volto o su quale lato dello schermo, ma gli permette di creare il proprio montaggio; rincara il discorso sulla perdita di identità sfruttando luci di strada sui secondi piani, in modo che i volti dei personaggi in primo piano appaiano oscuri e irriconoscibili; aumenta considerevolmente la portata emotiva dei singoli jump cut, saltellando da campi lunghissimi a piani ravvicinatissimi, dove i personaggi sembrano coricarsi addirittura sugli spettatori; adotta l'out of focus e la macchina a mano non più per evocare soggettive o momenti onirici (come avveniva, per esempio, in Florentina Hubaldo, CTE), ma per concitare i momenti più angosciosi e ansiogeni (a dire il vero solo uno, allungato, che rappresenta in un certo senso la resa dei conti dell'intera vicenda); corteggia le possibilità della fotografia abbagliando lo spettatore di giorno e costringendolo allo sforzo di penetrare il buio di notte; e infine brucia i contorni delle immagini, lasciando spesso solo immaginare ciò che non si vede o si intravede oltre di essi, tramite gli occhi e le espressioni dei suoi protagonisti, interpretati tutti egregiamente. Forse The Woman Who Left è il primo film "di attori" di Lav Diaz.
A livello di ambientazione, Diaz predilige come al solito gli spazi aperti, stavolta più urbani che naturalistici. Inoltre, mantiene l'unità di luogo, il che è avvenuto rarissimamente nel suo cinema (in luoghi comunque molto estesi in Batang West Side, con cui questo condivide l'ambientazione urbana; Naked Under the Moon; la prima metà di Melancholia). Infatti, piuttosto che contemplare viaggi o errabonde peregrinazioni, Diaz costringe i personaggi a percorsi spiraliformi, circolari, chiusi su loro stessi, passanti sempre dagli stessi luoghi, in una logica della ripetizione che, amalgamata con la distensiva durata della pellicola, rende alla perfezione il contrasto fra ossessione e rassegnazione, la lotta fra voglia di rivalsa e cupio dissolvi.
Le uniche peregrinazioni di The Woman Who Left sono temporanee, estrinseche, semplicemente dovute al fatto che Diaz decide di seguire un personaggio apparentemente secondario abbandonando la linea narrativa principale, solo per poi tornare su quest'ultima e fonderla con la secondaria. E' di fatto il comportamento di un narratore onnisciente che sa già dove i personaggi si muoveranno; e quasi un narratore infido, che costringe i suoi personaggi nelle inquadrature. D'altronde sempre, nel cinema di Diaz, ci si strugge per la possibilità della soggettiva. Con difficoltà riusciamo a guardare con gli occhi di Florentina in Florentina Hubaldo, CTE, o ad entrare nei sogni del protagonista di Batang West Side.
Come riesce a far sempre, Diaz porta alle estreme conseguenze gli strumenti del mezzo filmico; spazi, tempi, in generale le dimensioni cinematografiche, vengono allungate, manipolate, ed esplose, fino ad annullare la tensione classicamente intesa, e a concentrarla in uniche sequenze in cui da qualsiasi angolo potrebbe venir fuori il destino della sequenza stessa. Costringendo dunque lo spettatore a un'attenzione costante (il che è consolatorio, per i temerari delle lunghe durate), The Woman Who Left riesce a non eccedere in spiegoni (le identità alternative di Horacia, che diventa sia Renata che Leticia a seconda del personaggio che incontra), e ad assumere un tono più cronachistico senza abbandonare il sistema di segni che Diaz adora sempre mettere nelle sue opere, un sistema che in The Woman Who Left si traduce nello scontro fra antipodi (la schizofrenia della protagonista). E sebbene ecceda sul fronte citazionista (il finale è quasi sfacciato, nonché ammiccante) e per i puristi magari crolli nel melenso (in realtà necessario) nel confronto fra Horacia e Hollande (un melenso che non nega la sua regia forse più crudele, per quanto detto prima sulle prigioni visive), Diaz ci permette di nuovo e ancora di respirare; certo a posteriori e forse non con la sua solità libertà, ma costringendosi al compromesso, e uscendone vittorioso, ormai nuovo confermato maestro della Settima Arte, con le sue ossessioni e i suoi eterni ritorni.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta