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La mia vita con John F. Donovan

Regia di Xavier Dolan vedi scheda film

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La recensione su La mia vita con John F. Donovan

di leporello
4 stelle

Un Dolan inedito. Che sarebbe stato meglio fosse rimasto inedito....

   Imbattendomi poco fa,  per caso, nel suo film del 2014 “Mommy”, rimastone convinto solo in parte, ma in qualche modo piuttosto colpito (anche alla luce di ciò che ho potuto apprendere subito dopo dell’universale, corposo apprezzamento di critica e pubblico del giovane regista canadese a me finora ignoto), mi sono rimesso insieme tutta la filmografia di Xavier Dolan, dal suo esordio del 2009 (“J’ai Tué ma Mère”) fino all’ultimo del 2019 “Matthias & Maxime”, l’unico che non ho ancora visionato.


   E devo dire che, se con “Les Amours Imaginaires” del 2010 e con “Juste La Fin Du Monde” del 2016 il mio giudizio non è andato oltre la normale insufficienza (il primo a causa di un black-out di idee piuttosto vistoso, il secondo per via di una noia mortale dovuta agli strascicatissimi ed insensati dialoghi campo/ricampo/controcampati), con questo pessimo “The Death & Life of John F. Donovan”, dopo che tutti gli altri lavori mi avevano strappato un caloroso e a volte commosso applauso (“Mommy” compreso, rivalutabile alla luce dei lavori contigui) comincio ora un po’ a preoccuparmi.


   Questa volta banalità da ogni parte. Nella sceneggiatura, anzitutto, falsamente originale e che pesca nel mondo del “già visto” con una sfacciata melensaggine alla quale, personalmente,  pensavo essere immune il nostro Dolan.  Al montaggio e alla regia, piattissimi ed impersonali, in piena accondiscendenza ai canoni di un “cineamericano” rispetto al quale  il regista aveva sempre dimostrato di voler mantenere (con merito) le dovute, abbondantissime distanze: il regista canadese aveva  dato prova di un carattere (se non proprio ancora “stile”, ma data la giovane età, ancora, si potrebbe tranquillamente pazientare prima di riconoscergli un suo proprio “stile”) forte e volitivo, aveva dato l’impressione, grazie anche ai riconoscimenti festivalieri che gli piovono sulla  testa come durante un tornado, di volersi dedicare ad un cinema, diciamo così, un po’ speciale, un po’ diverso. Le tematiche omo/transessuali non sono più, ormai, nulla di nuovo, né di trasgressivo, ma Dolan aveva saputo trovare quel tocco di follia, lucidamente esagerata, per dare una sua impronta, una voce molto personale. Ora: fermo restando che non si è certo obbligati a dover ogni volta affrontare le stesse tematiche (per carità! Ben venga dell’altro.), con questo “Donovan” Dolan pare essere rimasto completamente orfano, apolide, naufrago, smarrito in una narrazione al limite del disneyano (che non è di per sé un difetto finché si rispetta lo spirito disneyano); basti considerare solo la scena e l’inquadratura finale, con la giornalista (a proposito: è messa insieme “col Bostik” l’interazione della giornalista col giovane Rupert) che si morde un labbruccio e sorride al cielo (ma a chi?? Perché??) intanto che Rupert se ne va via in motocicletta col suo fidanzato dopo aver finito di raccontare la sua storia da bambino.


   E si finisce con la prestazione degli attori, usati davvero come bamboline finte e con le pile scariche: su tutti, la (altrimenti bravissima) Natalie Portman, alla quale sono stati richiesti certi ammiccamenti da attori di cinema di mille anni fa, dopo che con altri suoi film Dolan aveva espresso una modernità anche di recitazione che poteva far credere anche di contenere il genoma di un cinema in divenire,  le basi di un qualcosa tutto da costruire. Con questo film Dolan compie un passo indietro che ho già definito preoccupante,  dal quale spero si sia ripreso con il film successivo (“Matthias & Maxime” dell’anno scorso) a proposito del quale spero di aver voglia di scrivere cose migliori non appena (presto) l’avrò potuto guardare.

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