Regia di Martina Parenti, Massimo D'Anolfi vedi scheda film
L’immortalità è un tema che interessa solo il genere umano. Nessun’altra specie vivente teme la morte semplicemente perché non ha concezione. E allora cos’è l’immortalità per l’uomo? Da questa domanda prende avvio Spira mirabilis, opera con cui i registi Massimo D’Anolfi e Tiziana Parenti si allontano leggermente dal loro selciato per lasciare il rapporto tra l’uomo e le istituzioni e parlare di qualcosa di più metafisico.
L’occasione viene fornita dagli studi portati avanti dallo scienziato giapponese Shin Kubota, che ha scoperto l’immortalità e la rigenerazione della medusa scarlatta, in grado di evolversi fino all’immortalità. La medusa appartiene all’acqua, uno dei quattro elementi naturali a cui vengono facilmente associati dai due registi anche terra (riprendendo i restauri a cui è soggetto il Duomo di Milano, già al centro del loro L’infinita fabbrica del Duomo), l’aria (concentrandosi su Felix Rohner e Sabina Schärer, coppia di musicisti inventori di strumenti particolari, come un tamburo che riproduce il battito cardiaco) e il fuoco (lasciando spazio alle parole di una donna sacra e di un capo spirituale di una comunità lakota). Ai quattro elementi, ne associano un quinto, l’etere, di cui simbolo è una personale rilettura di L’immortale di Borges affidata all’attrice Marina Vlady.
Immagini di cave di marmo, di paesaggi marini, di cantieri in cui si restaurano statue, di studi in cui si mette a punto il tamburo, di laboratori scientifici e di vecchi filmati amatoriali, si susseguono sullo schermo senza particolare contiguità semantica. Le immagini spesso sembrano appartenere ad altro e lo spettatore fa fatica a rimettere insieme i pezzi di un puzzle che vorrebbe invece essere chiaro nelle intenzioni. A distrarre spesso sono la passione dello scienziato per il canto e i suoi esperimenti in vitro o le gigantesche facce delle statue del duomo milanese, così come paradossalmente i rumori, caratteristica che invece aveva reso peculiari i lavori precedenti della coppia. Sia chiaro, il lavoro di Massimo Mariani, che ha curato il suono della pellicola, è sempre encomiabile: è la scelta dei rumori da mostrare che è discutibile. Si tratta di rumori che volutamente stridono con la delicatezza del tema e che appaiono fuori luogo: i personaggi che si intravedono indossano spesso cuffie isolanti per alienarsi ma allo spettatore non è permesso fare lo stesso.
Il tema dell’immortalità e la sua strutturazione appaiono anche del tutto pretestuosi. I collegamenti risultano forzati e non si intuisce la ragione per cui siano stati scelti, lasciando domande incompiute e aperte. L’aria accompagna la creazione di un tamburo, ad esempio, ma perché? Per l’aria che lo strumento fa vibrare o per l’ultima associazione di immagini con i neonati in incubatrice? Il fuoco, banalmente, viene associato agli indiani d’America, presentati in due o tre sequenze che non aggiungono niente di nuovo alle loro lotte per l’indipendenza, mentre la terra è associata al duomo solo perché le statue sono fatte di marmo, estratto da una montagna. L’unico elemento azzeccato, va da sé, è l’acqua: dove vuoi che vivano le meduse?
Sebbene vogliano parlare di immortalità, Parenti e D’Anolfi appesantiscono la questione con una regia che potremmo definire cadaverica, senza un guizzo di particolare interesse e non all’altezza delle opere precedenti. E a nulla serve lo spiegone poetico lasciato alle parole di Borges, scomodato inutilmente ed enfaticamente declamato. Peccato.
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