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Spira Mirabilis

Regia di Martina Parenti, Massimo D'Anolfi vedi scheda film

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La recensione su Spira Mirabilis

di Spaggy
4 stelle

L’immortalità è un tema che interessa solo il genere umano. Nessun’altra specie vivente teme la morte semplicemente perché non ha concezione. E allora cos’è l’immortalità per l’uomo? Da questa domanda prende avvio Spira mirabilis, opera con cui i registi Massimo D’Anolfi e Tiziana Parenti si allontano leggermente dal loro selciato per lasciare il rapporto tra l’uomo e le istituzioni e parlare di qualcosa di più metafisico.

L’occasione viene fornita dagli studi portati avanti dallo scienziato giapponese Shin Kubota, che ha scoperto l’immortalità e la rigenerazione della medusa scarlatta, in grado di evolversi fino all’immortalità. La medusa appartiene all’acqua, uno dei quattro elementi naturali a cui vengono facilmente associati dai due registi anche terra (riprendendo i restauri a cui è soggetto il Duomo di Milano, già al centro del loro L’infinita fabbrica del Duomo), l’aria (concentrandosi su Felix Rohner e Sabina Schärer, coppia di musicisti inventori di strumenti particolari, come un tamburo che riproduce il battito cardiaco) e il fuoco (lasciando spazio alle parole di una donna sacra e di un capo spirituale di una comunità lakota). Ai quattro elementi, ne associano un quinto, l’etere, di cui simbolo è una personale rilettura di L’immortale di Borges affidata all’attrice Marina Vlady.

scena

Spira Mirabilis (2016): scena

Immagini di cave di marmo, di paesaggi marini, di cantieri in cui si restaurano statue, di studi in cui si mette a punto il tamburo, di laboratori scientifici e di vecchi filmati amatoriali, si susseguono sullo schermo senza particolare contiguità semantica. Le immagini spesso sembrano appartenere ad altro e lo spettatore fa fatica a rimettere insieme i pezzi di un puzzle che vorrebbe invece essere chiaro nelle intenzioni. A distrarre spesso sono la passione dello scienziato per il canto e i suoi esperimenti in vitro o le gigantesche facce delle statue del duomo milanese, così come paradossalmente i rumori, caratteristica che invece aveva reso peculiari i lavori precedenti della coppia. Sia chiaro, il lavoro di Massimo Mariani, che ha curato il suono della pellicola, è sempre encomiabile: è la scelta dei rumori da mostrare che è discutibile. Si tratta di rumori che volutamente stridono con la delicatezza del tema e che appaiono fuori luogo: i personaggi che si intravedono indossano spesso cuffie isolanti per alienarsi ma allo spettatore non è permesso fare lo stesso.

Il tema dell’immortalità e la sua strutturazione appaiono anche del tutto pretestuosi. I collegamenti risultano forzati e non si intuisce la ragione per cui siano stati scelti, lasciando domande incompiute e aperte. L’aria accompagna la creazione di un tamburo, ad esempio, ma perché? Per l’aria che lo strumento fa vibrare o per l’ultima associazione di immagini con i neonati in incubatrice? Il fuoco, banalmente, viene associato agli indiani d’America, presentati in due o tre sequenze che non aggiungono niente di nuovo alle loro lotte per l’indipendenza, mentre la terra è associata al duomo solo perché le statue sono fatte di marmo, estratto da una montagna. L’unico elemento azzeccato, va da sé, è l’acqua: dove vuoi che vivano le meduse?

Sebbene vogliano parlare di immortalità, Parenti e D’Anolfi appesantiscono la questione con una regia che potremmo definire cadaverica, senza un guizzo di particolare interesse e non all’altezza delle opere precedenti. E a nulla serve lo spiegone poetico lasciato alle parole di Borges, scomodato inutilmente ed enfaticamente declamato. Peccato.

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