Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film
Split (2017): locandina
«Chi ha sofferto è più evoluto. Gioisci, gioisci!»
Non un film-cervello né una depalmiana riflessione virtuosistica sul mezzo.
Piuttosto, un testo denso su più strati.
Alla maniera shyamalaniana.
(Finalmente!)
Innesco, la dimensione – basica, familiare, abusata, banale – del rapimento di giovani belle ragazze: un classico, un luogo sicuro senza possibilità di ulteriore decodifica. La dolce brusca virata sul (sempre affascinante) “gioco” delle personalità multiple – nominalmente 23, ma ne bastano molte meno - è un'avanzata rischiosa, apparentemente caotica e autoalimentata, un richiamo ferino, un'adunata al quale il lettore/spettatore/vittima non può sottrarsi.
Il regista-demiurgo, tornato alle origini – e al buon senso (sì, inguardabile The Last Airbender; ridicolo After Earth; mediocre il sopravvalutato The Visit) –, prepara e inscena, con la maniacale e certosina dedizione del dissezionatore di corpi e psiche, il teatrino sadico del quale il sempre bravo James McAvoy è assoluto dominat(t)ore: dissociarsi – più e più volte -, spezzettarsi, ossessionare, inquietare con naturalezza, scatenare una ghignante caccia alla (impura) lepre è un attimo.
Bestiale.
Come gli occhi da rapace interrotto di Anya Taylor-Joy – fenomenale, magnetica presenza evocativa di grazia, forza e fragilità antiche -, preda designata i cui flashback le disegnano però un'infanzia e un'esistenza tutt'altro che spensierate (al contrario delle altre due compagne di esperienza).
Ecco.
Se il meccanismo delle molteplici identità – non manca ovviamente la figura di un'illuminata psicologa – si prende tutta una prima parte (non sempre omogenea nei tempi e nei ritmi) scoprendo e palesando apertamente la straordinarietà di un individuo fuori dai canoni (addirittura teorizzando la “superiorità” in/di esseri così diversi, speciali), e mentre lo spettacolo perverso del gatto malvagio con le tope/pupe solletica brandelli cerebrali meno nobili, emerge progressivamente – suadente dapprima, sotterraneo, poi pulsante e ossessivo, feroce, come un componimento degli Opeth – il senso ultimo.
Split – spleen ispirato di un autore dallo sguardo sempre (eccetto quanto sopra, ça va sans dire) leggiadro, verginale, raffinato (tanto più quanto la materia si fa oggetto angosciante e tetro) – nel disvelare alfine lo strato significante – più che il twist che ben conosciamo o un mero coup de théâtre – , evolve in studio ardito sulla umana natura.
Perché, «noi siamo quello che crediamo di essere»: finanche, un ibrido ignoto non solo di più personalità sorte a protezione di una coscienza dilaniata nel profondo, ma pure di una congiunzione con la realtà animalesca (che ci circonda ed è insita in noi).
Una trasformazione belluina in punta di (dis)armonia – sospesa tra inquadrature discrete e sequenze fluide, che attengono a una carnalità sensuale e terribile – tesa a schivare le pallottole della retorica della spettacolarizzazione per azzannare un viscerale sentimento di identificazione e riconoscibilità: nell'incontro (splendido, per intensità e sensibilità sia degli interpreti che della messa in scena) tra la bestia e la bella – entrambi sofferenti, tormentati, sbranati all'origine -, l'opera dispiega le ali mostrando il suo vero volto.
Non tutto magari funziona – tra una prima parte che presenta situazioni diluite, non sempre a fuoco, e mancando un po' in quel tipico senso di stringente, avvolgente ineluttabilità di altri film (da Unbreakable a Signs fino al meno riuscito E venne il giorno) – ma Split rivela una vitalità, una qualità di scrittura e una capacità di incidere l'immaginario rinnovate.
E quel finale, poi: una zampata geniale.
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Mi pare di capire che merita senza altro una visione. Pensa che a me era piaciuto pure The Visit!
Non sei il solo, anzi, anche qua trovi diversi estimatori del precedente di MNS.
Split la visione la merita senz'altro, inoltre sta avendo ottimi riscontri anche di pubblico. Guardando la programmazione di questi giorni non avrei dubbio alcuno ... Ciao.
Tecnicamente questo film ci restituisce il miglior Shyamalan, molto più in forma di quello di The Visit (dove comunque aveva dato confortanti segni di ripresa).
Quello che manca a quest'opera è il guizzo decisivo, il colpo di genio che aveva reso memorabili Il Sesto Senso e, soprattutto, The Village.
Il finale insomma, a mio avviso, non è altezza del resto del film, e non basta un post-finale, sui titoli di coda, autocitazionista (e con un cameo eccellente) a salvare l'insieme. Per me sufficiente (in maniera piena) e niente di più.
L'ultima scena fa sobbalzare, dai: io l'ho trovata geniale, peraltro apre nuove scenari (addirittura si parla di uno "shyamalanverse").
Quanto al finale, invece, io l'ho trovato calibrato e sensato, un'evoluzione naturale di eventi e personaggi. Non sempre ci può essere il "colpo di genio", il twist, e non ha sempre ha un senso che ci sia.
Peraltro, è un'arma a doppio taglio: alla seconda visione, per esempio, Il sesto senso perde molto del suo fascino, della sua stessa essenza.
Semmai, quello che imputo a Split, come ho già scritto, è che difetta in quell'atmosfera ineluttabile tipica dei migliori film del regista.
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