Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film
È un’oggetto strano Split.
Classificarlo in un determinato genere? non è semplice.
Che il regista indiano naturalizzato yankee si diverta a giocare con i generi e mescolarli tra loro, rielaborandone capillarmente la grammatica per approdare a risultati altri, al compimento, cioè, di quelle che sono profonde riflessioni sulla dimensione/condizione umana non è affatto un mistero, e anche con Split il gioco si ripete, fino ad assumere forme inattese che se da un lato tengono in pugno lo spettatore impegnato a dialogare animatamente con una vicenda che innegabilmente appassiona, dall’altro lo conducono ad intavolare un altrettanto acceso dibattito con se stesso, interrogandosi sulla valenza effettiva dell’opera al di là dell’ottima confezione di cui si fregia, e sul percorso (strampalato?) che questa sceglie di seguire. Sul perché il regista-autore abbia pensato di raccontare la storia che racconta e nel modo in cui la racconta.
Era necessario allestire un tale 'specchietto per le allodole'?
Che sfruttasse derive DePalmiane (quando De Palma guarda ad Hitchcock), fondesse insieme il sempre quotato filone rape & revenge, thriller soprannaturale (che nelle sue mani diventa meraviglia) e l’attuale tendenza hollywoodiana a realizzare costosi giocattoloni cinecomics gettonatissimi nei multiplex, soprattutto dagli spettatori anagraficamente più giovani -cui lo stesso James McAvoy (qui assoluto protagonista) ha preso parte- dove l’(anti)eroe nel nuovo immaginario comune è più che mai concreto, materico, a grandi linee rispondente ad un mutante dal fisico nerboruto ed una forza impressionante, dotato di una pericolosa attitudine ferina che le sofferenze dell’anima non smettono di nutrire, rendendolo, a dispetto della stazza e dei poteri sovraumani, una creatura profondamente fragile e tragicamente umana?
Evidentemente sì.
Probabile che Shyamalan, volendo ritornare in auge sulla scia dei successi del passato -e ad attestarne le buone intenzioni palesa un ‘contatto’ con uno dei suoi precedenti film- abbia pensato di inaugurare la propria definitiva rentrée accontentando un po’ tutti, così da riconquistare l’affetto (semmai lo avesse perduto) degli estimatori della prima ora e garantirsi, al contempo, il consenso delle nuove generazioni (che forse poco o nulla sanno di lui) assecondandone i gusti nell’allinearsi alla loro maniera di fruire di cinema al cinema, attraverso l’impiego di ‘segnali’ (vaghi rimandi fisici e comportamentali ai contemporanei cinecomics) a loro riconoscibili, a loro familiari, affinché l’operazione dialogica da portare avanti ne contempli l’inclusione in forma assolutamente attiva.
Tessere, perciò, l’inganno del cinema ad immagine e somiglianza del demiurgo Shyamalan diventa cosa buona e giusta da realizzare. Con il benestare della Blumhouse che, forte del successo ottenuto col precedente The Visit (sempre firmato Shyamalan) si sarà detta pronta a lanciarsi nel progetto, forse il più singolare e rischioso realizzato fino adesso.
E col fine ultimo di arrivare a svelare completamente (seppur seminando indizi, a partire dall’incipit) il fulcro del discorso che tiene in piedi Split. E che fa il suo ingresso in scena in un perfetto tempismo, ovverossia, quando oramai il pubblico, incastrato nella storia, non può più liberarsene con una semplice scrollata di spalle, ed è, e viene costretto a guardare in faccia l’amara verità che il regista adesso gli sventola sotto gli occhi.
In un mondo ossessionato dalla ricerca della felicità, dove questa pare proprio essere divenuta un’industria ben rodata a tutti gli effetti (leggere, per farsi un’idea, l’editoriale pubblicato su filmtv rivista n.3 di questo gennaio), soffermarsi ad imbastire considerazioni sul dolore, sulla sofferenza dell’anima e sulle conseguenze che le ferite interiori possono procurare a se stessi e agli altri, soprattutto se vengono espresse prive di filtri e ammortizzatori vari che ne riducano sensibilmente il pesante impatto emotivo, e soprattutto se inattese e scaturenti da contesti (quasi) insospettabili, come il pop corn movie per intenderci, pare proprio un’idea azzardata, per non dire una follia.
Un’operazione di raggiro vera e propria, sconveniente, inopportuna, magari pure sbagliata.
Un affronto, stando agli umori serpeggianti in sala dopo l’iniziale euforia unita al gradimento strappato dal continuo ‘cambio d’abito’ di un gigantesco James McAvoy.
Un affronto efficace, però.
E un atto di grande coraggio. Rivolto in particolare ai ragazzi, del cui universo interiore l’autore di Lady in the water si è sempre interessato.
Specialmente se si considera che il suo nuovo film è stato presentato come un horror (e, per correggere il tiro all’ultimo momento, un thriller) made in Blumhouse, casa di produzione-regina delle pellicole di paura piuttosto/più o meno innocue ma godibili, che di questi tempi riescono ad ottenere un considerevole spazio in sala racimolando una buona manciata di consensi provenienti in larga parte da adolescenti e giovani adulti. E il precedente The Visit (horror che gioca coi canoni dell’horror), in questo senso, non ha fatto che aumentare le aspettative orrorifiche di Split.
Facendole probabilmente deragliare del tutto, o quasi.
Perché Split non fa paura come farebbe paura un film dell’orrore.
Perché Split a sorprendere sorprende, e certamente spiazza chi si è approcciato al film con uno spirito leggero, per una divertente serata tra amici, magari percorsa da un paio di brividi lungo la schiena. E nulla più.
Ignaro del dolore che pulsa tra le pieghe di un lavoro difficile, faticoso da reggere a lungo e, magari, pure irritante per la ripetitività che rasenta il parossismo e su cui sembra accartocciarsi senza proporre una via d’uscita.
Ignaro della componente altamente tragica che si annida tra le righe di questo racconto bizzarro quanto si vuole ma a suo modo affascinante ed incisivo.
Una favola bambina, forse, che le brutture umane hanno sfregiato facendola crescere troppo in fretta, disillusa ed imperfetta.
Ma come tutte le favole, almeno una grande verità il film la custodisce: è necessario prendere atto della sofferenza in quanto parte integrante dell’esistenza umana, dal suo primo vagito al suo ultimo respiro.
Rifuggirla, allontanarla dai nostri figli, da chi amiamo al punto da rimuoverla, vivendo come se non esistesse e non ci riguardasse non cambia la nostra condizione, la rende solo più meschina.
E non ci trasforma in persone migliori, in esseri puri e illuminati, ma soltanto in omuncoli tristi ed ottusi.
E allora, che la forza (di far fronte al dolore, di convivere con esso) sia con noi.
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