Regia di Walter Hill vedi scheda film
L'America nasce dal ferro e dal fuoco, e dal sangue di innocenti e valorosi guerrieri: un po' la versione idealizzata della frase di lancio di Gangs of New York di Scorsese, qui però con un'alta dose di anti-patriottismo e di facile critica. Geronimo di Walter Hill, splendidamente diretto da un regista che altrove ha saputo sempre farsi riconoscere, costruendo capolavori 'di genere', da 48 ore a I cavalieri delle lunghe ombre, qui appiattisce decisamente il tono e, facendo il filo alla tradizione western americana (da L'ultimo apache di Aldrich in giù), cerca di creare un mito opposto, celebrando e innalzando un personaggio che è di solito l'antagonista. Geronimo è infatti un capo apache di grande carisma e coraggio, particolarmente valoroso, profondamente umano nonostante l'apparenza mitica, e che dimostra tutta la sua umanità nella crescita che realizza durante la sua vita, da una prima fase di costante vendetta a una seconda indirizzata al pacifismo rassegnato, mutismo di un cuore indomito.
E' sicuramente lodevole il tentativo di Hill di umanizzare una maschera, una leggenda, imponendo così il suo film nella storia del western per originalità e spessore tematico, ma siccome le intenzioni non fanno un film, e il linguaggio non ha nulla di originale in sé e per sé, fra paesaggi fordiani e primi piani eccessivamente moderni ed eloquenti, il futuro regista di Undisputed fallisce in parte l'eccellentissima impresa. Infatti il suo film pecca di ignavia, non si sa decidere, vaga tra eroi americani, uomini perdonabili, cattivoni senza scrupoli e giovani in crescita e in lenta acquisizione di consapevolezza, senza sapere come far finire le generalizzazioni e il manicheismo per elevarsi e trasformare il suo film in un'opera importante. Il tentativo tradisce ingenuità e semplificazioni, e il film, nella sua correttezza politica (perché l'aspetto eversivo con cui si critica il mito della frontiera è facile e non l'ha certo inventato lui) si sfronda della maggior parte dei suoi motivi di interesse. Si risveglia, dopo un'oretta o poco più di stasi, nella seconda fase, dove, privandosi dell'azione violenta che fino ad allora l'aveva contrassegnato (ma senza destare reale sconvolgimento) cerca di tirare le somme. Alla fine è tutto paradossalmente a posto, non in senso storico, certo (una civiltà millenaria finisce), ma i personaggi, nella giustizia o nell'ingiustizia, rimangono celebrati, e lo spettatore si accontenta. Dopo tutto sì, ci si accontenta. L'azione non riesce a ben inserirsi nel tono epico, i personaggi godono di troppo poco spessore e il ritmo regge solo per gli appassionati. E solo a quelli, dunque, è consigliabile un film come Geronimo, in cui si salva, in realtà, solo il personaggio di Robert Duvall, disillusa ma virile anticipazione della Jessica Chastain di Zero Dark Thirty, benché tutto con meno crudeltà e più spettacolarismo che nel film della Bigelow: in entrambi l'America si impone su un capo ribelle, e se qui il Cattivo è Buono e nel film della Bigelow no (lì Bin Laden nemmeno compare), il mancato senso di soddisfazione per quel Duvall ucciso verso la fine è lo stesso. Solo che Duvall non ci arriverà alla fine, alla cattura del suo apache preferito. La Chastain non troverà soddisfazione da quella caccia. Duvall forse l'avrebbe trovata, se ce l'avesse fatta, perché il West di Hill ha un retrogusto classico, è quello dei sogni di vittoria, dei sogni del cinema del passato. Ma una correttezza tutta moderna alla fine incombe: il nuovo western tiene conto di tutti gli esseri umani. E così tutto si indebolisce come un ramoscello. Appena appena perdonabile.
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