Regia di Walter Hill vedi scheda film
Dal “Geronimo” di Walter Hill su sceneggiatura di John Milius (coadiuvato da Larry Gross) ci si poteva (doveva) aspettare molto di più. Non che sia da buttare, tutt’altro, ma è certamente un film che nasce da un compromesso e come sempre accade in questi casi, alla fine i conti non tornano mai del tutto.
Il fatto è che la sceneggiatura è stata (incomprensibilmente) appiattita e resa “politicamente corretta” per renderla molto più conforme di quanto non fosse invece in originale: per Milius, cantore di eroi, sconfitte e destini, la storia doveva essere raccontata da un giovane Apache, ma la produzione e Walter Hill hanno cancellato la visione ribellistico-contadina dello sceneggiatore e scelto invece di guardare i fatti (ancora una volta) dal punto di vista dei bianchi, pur “bilanciando” abbastanza bene i contrapposti punti di vista (lo sguardo è quello “mediato” del tenente Britten, fresco di West Point che viene assegnato ad un forte in Arizona), poiché se rimane certamente la storia di una sconfitta “rivoluzionaria” (il periodo preso in esame è il biennio 1885- 86) qui si “celebra” comunque il vinto (esaltando l’indomito spirito combattivo dell’indiano) e si “demonizza” abbastanza il vincitore (non è un caso che il film si concluda con le dimissioni dall’esercito del narratore) ma senza dimenticarsi di sottolineare anche il “positivo” eroico valore del bianco. Dunque possiamo dire che “Geronimo”, il film girato da Hill (non quello scritto da Milius che dobbiamo soltanto “immaginare”) non funziona del tutto perché si avvertono le contraddizioni che emergono (e si scontrano) a causa di un differente punto di vista e che si riflettono in un’opera “crepuscolarmente” epica ma molto meno “eversiva” di quanto voleva essere in origine. Il regista è infatti più interessato a ricercare quello che potrei definire “il respiro della classicità” negli spazi sconfinatamente "lussureggianti" della frontiera (gli sfondi sono quelli canonici dei canyon e delle “torri” di roccia del fordiano Utah) che ad approfondire davvero la visione "sociologica" degli avvenimenti da una posizione critico-didattica che sia capace di restituire davvero il senso ultimo di un “tradimento” (quello del mancato rispetto delle promesse) e di quella inevitabile “resa incondizionata” che costerà a Geronimo un prolungatissimo esilio (morirà così, senza poter rivedere la terra dell’Arizona, ben 25 anni dopo la sua capitolazione).
Il western è un genere molto pericoloso, e soprattutto adesso, non accetta bene le “mezze misure” Caratterizzato da quella semplicità che è molto difficile da realizzarsi, è quasi sempre refrattario a certe leziosità stilistiche che lo impreziosiscono sicuramente, ma finiscono poi per appesantirlo fino a renderlo meno empatico. E la vicenda di Geronimo, fatto prigioniero, guerriero in fuga, ribelle spietato, così come le storie dei militari bianchi con i loro sterili dubbi etici e “di coscienza” (un pò "coccodrilleschi ", direi), non riescono a farsi davvero “racconto”, non portano ad una partecipazione emozionale che invece sarebbe particolarmente necessaria.
E allora si “apprezza” abbastanza, ma non ci si “esalta”.
Il cast è di tutto rispetto, e se il personaggio forse più "riuscito” o maggiormente compiuto, risulta essere (un mio personale parere) quello disegnato da un Robert Duvall sempre grande (il bianco “razzista” che muore per salvare la sua guida indiana) anche gli altri che dividono con lui la fatica, se la cavano bene, dal protagonista Wes Studi (Geronimo) a Jason Patric (il coraggioso tenente Charles Gatewood che ha imparato a rispettare l’indiano); dallo straordinario Gene Hackmann (il generale Cook) al giovanissimo Matt Dammon (Britton Davis), a tutti gli altri, come sempre “inappuntabili” nel cinema di oltreoceano (Rodney A, Grant, Kevin Tighe, Steve Reeves, Victor Aaron e Carlos Palamito).
Fondamentale la fotografia “antiretorica” di Lloyd Athern e funzionale il commento musicale di Ray Cooder.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta