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The Road to Mandalay

Regia di Midi Z. vedi scheda film

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La recensione su The Road to Mandalay

di EightAndHalf
8 stelle

Si parte da lontanissimi. Un gommone trasporta un uomo e una donna dalla riva all'altra di un fiume. La donna arriva e viene trasportata in camion fino a - si scopre in itinere - Bangkok, dove comincia a cercare un lavoro. Durante il viaggio un ragazzo si propone di fare cambio con lei nella sistemazione sul camioncino (lei era prevista nel portabagagli, lui nel sedile anteriore). La aiuterà a trovare un lavoro, dopo tanti tentativi falliti a causa dell'assenza di un documento di identità valido. 

E non finiscono qui gli eventi di The Road to Mandalay, diretto da Midi Z e centrato su un problema rimosso dalla cronaca mondana, ma che si ripete uguale in molte altre parti del mondo: l'emigrazione dalla Birmania verso la Thailandia per cercare lavoro e fortuna. Il film, realista come lo è un film di Edward Yang, si ripromette di raccontare delle storie di fallimenti.

 

Kai Ko, Wu Ke-xi

The Road to Mandalay (2016): Kai Ko, Wu Ke-xi

 

Con un occhio, appunto, al cinema taiwanese degli anni '90 - ci sono anche tracce di Tsai Ming-liang qui e lì, specie nella scelta dei pdv grandangolari - The Road to Mandalay si dispone a quella che ritiene essere la distanza giusta. E' forse l'abile recitazione per sottrazione dei caratteristi principali a renderceli subito familiari e vicini, nonostante la freddezza della pellicola, che prevede sì e no due sequenze musicate. Ma sicuramente ad avere un ruolo fondamentale è la regia, che si muove poco, se si muove resta sul posto (tranne in tre splendide eccezioni sul finale), e agguanta il campo visivo in maniera ineffabile, certe volte riorganizzando le gerarchie delle figure umane (magari il regista ha visto Jia di Liu Shimin). La cosa più bella della regia di Midi Z è quella di sapersi mettere in discussione: dopo una prima ora e mezza statica - ma coinvolgente - il film cambia rotta, azzarda l'onirismo, e si conclude con un coup de théatre che ha la crudeltà di certe scene di Haneke. E non si tratta di una scelta furba, e neanche sbagliata, perché il regista non ha fretta di arrivare a quel momento, ma fa cuocere il suo film a fuoco lento, aderendo alle situazioni, imbastendo palcoscenici spesso degradati di vita quotidiana, per poi esplodere addirittura nell'allegoria e nel sogno.

Tanto più che la cinepresa, nei momenti finali, si muove dal suo posto, e si butta a capofitto su angosciosi primi piani. I quali fanno tanta più impressione, tanto più ci eravamo abituati a quella distanza, a quella posizione, a quel dato tipo di intimità. La parte finale di The Road to Mandalay vale tutto il film perché è una costruttivissima violenza ai danni dell'occhio e del pudore dello spettatore.

 

Kai Ko, Wu Ke-xi

The Road to Mandalay (2016): Kai Ko, Wu Ke-xi

 

Ma il resto del film non è certo da buttare. Oltre ad essere una semplice ed efficace indagine umana alla ricerca di un'identità, il film di Midi Z è un apologo sull'amore egoista e ingenuo, la versione nichilista della love story tout court di Dust in the Wind di Hou Hsiao-hsien. Solo solo per come riesce a riempire di significato l'immagine a partire dalla posizione della mdp: per almeno due volte Lianqing, la giovane protagonista, si ritrova dietro delle sbarre, oppure nascosta dai fili di tessuto che tanto difficoltosamente deve unire assieme in fabbrica. Intrappolata in un limbo che annulla l'identità e l'individuo, che azzera i desideri, che impartisce la lezione di un destino ingiusto e crudele, regolato dai soldi e scandito dai martiri per autoumiliazione. Poesia per gli occhi.

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