Regia di Amanda Kernell vedi scheda film
Un bel film fatto di terra difficile, di animali, di erba fredda, di colline faticose da scalare, di gente ostile, troppo bionda e troppo chiara, dagli occhi e dallo sguardo gelidi, che guarda con sospetto e ha paura di venire a contatto con una ragazza che viene da lontano.
La discriminazione razziale è un problema vecchio quanto la Storia. Non ha età, non ha territorio, non ha confini, non conosce pause se non per brevi periodi di attenuazione ma è sempre presente, tanto che ci sono fasi in cui si acuisce in qualche parte del mondo. Come nei giorni che stiamo vivendo adesso. Nasce da pregiudizi verso popoli che hanno tradizioni diverse, culture non integrate, abiti e usanze che ci paiono aliene, con gente che veste diversamente e che spesso ha un colore della pelle che dà l’impressione agli occhi il senso e il timore della diversità, che invece dovrebbe rappresentare un arricchimento della cultura e delle conoscenze. È successo, succede e purtroppo ho paura che succederà. Eppure, c’è sempre qualcuno più a sud di ognuno: più si va verso il nord della terra più si trova ovviamente il “settentrionale” di turno e perfino vicino al Polo Nord si sono storicamente registrati episodi di intolleranza. È un fenomeno socio-politico che a volte capovolge la situazione e si verifica che il popolo reietto risulta quello più a nord. Che è poi quello che in effetti è successo al popolo Sami, cioè al fiero popolo dei Lapponi, che popolano da sempre la vasta zona che comprende la penisola scandinava, la Finlandia centro e sudorientale, la Penisola di Kola e la Carelia.
La giovane e valente regista svedese Amanda Kernell, che è appunto di origini Sami meridionali, esordisce, dopo diversi cortometraggi, con questo coraggioso e notevole film per raccontare una storia molto particolare, parecchio colorita da questo “vizio” mentale che è il razzismo. Io non so se i suoi intenti iniziali erano quelli parlarci nei dettagli della discriminazione oppure di sue esperienze personali, ma in ogni caso la sua trama punta tutta l’attenzione su un racconto che ne parla ampiamente.
Il film è un lungo flashback che inizia allorquando la protagonista assoluta Elle-Marja (interpretata da una bravissima Lene Cecilia Sparrok, 19 anni al momento dell’uscita dell’opera, ma quattordicenne per la trama) torna da anziana con il figlio Olle e la nipotina Sanna nella terra di origine, tra i Sami appunto, perché è morta la sorella, persona che lei non voleva più incontrare dopo la fuga dal suo passato. È così che veniamo a conoscenza di ciò che era successo durante la sua adolescenza, negli anni Trenta, quando gli svedesi non amavano particolarmente i lapponi, che rimanevano legati e confinati nel loro territorio, dedicati solo alla pastorizia che dava loro da vivere. Le renne erano l’unico sostentamento: da questi animali ricavavano carne e pelle e sin da bambini imparavano a badare alle mandrie e conciare. L’unico modo per ricevere insegnamenti era la scuola a loro riservata, dove le severe maestre li obbligavano a dimenticare la lingua tradizionale e ad assimilare la lingua svedese. Una vita difficile e sacrificata ed una educazione rigida che a Elle-Marja stanno molto strette: ha un carattere forte e ribelle, spera di migliorare le sue condizioni e nel frattempo è la prima della classe. Non ha altro per la testa. Evadere, andare nella città di cui sente parlare come fosse la terra dei sogni: Uppsala! Un giorno si decide e ruba alla sua insegnate il vestito, le scarpe e il nome e si avventura nella fuga dal villaggio. Senza paura, con coraggio, trascurando ogni eventuale ma sicura difficoltà per realizzare il progetto. L’importante è per lei iscriversi ad una vera scuola e liberarsi della vita che la affligge. La molla che fa scattare la fuga è stata una imbarazzante visita di tre medici venuti nella scuola per prendere letteralmente le misure degli studenti sami e fotografarli nudi, nell'ambito di uno studio scientifico antropologico. Una schedatura degna della peggiore scienza razzista immaginabile! Il colmo lo raggiunge al momento che la costringono con coercizione a farsi fotografare senza vestiti. Intollerabile. È la scintilla che accende il suo fuoco ribelle.
La regista le pianta addosso l’obiettivo della macchina da presa e non la molla più: eccettuate le sequenze in cui la vediamo anziana e con lo sguardo burbero e sempre ribelle alle richieste degli altri, quindi solo nell’incipit e nel breve finale, è lei, Elle-Marja sempre in primo piano. Si batte e combatte, finge di chiamarsi Christina (come la maestra), si innamora di un giovanissimo soldato svedese a cui deve nascondere le sue origini, entrare nella casa della famiglia del giovane, frequentare la scuola tanto agognata, insinuarsi nella palestra di ginnastica in mezzo alle altre ragazze, tutte magre come giunchi e bionde, che guardano questo strano ed estraneo essere tozzo e ben in carne, ma dal viso fiero e volenteroso. Elle-Marja/Christina ha una determinazione che neanche un carro armato, ha in mente l’unico scopo che si è prefissato e difficilmente la fermeranno. Capace di andare e tornare dal suo villaggio pur di arrivare al traguardo preposto. Poche parole, molti sguardi duri, si muove come un animale fuori dal recinto che sa che deve sopravvivere e ci mette tutta la forza che possiede.
Dialoghi a tratti scarni, volti che si guardano, che la valente regista svedese inquadra come un racconto solo esposto, che va per immagini che colpiscono lo spettatore. Sequenze che lasciano nello spettatore un lungo deposito nell’anima e negli occhi, sedimentano ricordi che durano giorni. Tra la bravura della regista e quella della giovane attrice, il film scuote i sentimenti e ci si ritrova a fare il tifo per quella adolescente così intraprendente e ribelle. Fiera è un sostantivo e anche un aggettivo e lei li impersona entrambi: la strada della vita di quella che ormai è e sarà Christina è tracciata, almeno nella sua mente e i bellissimi e colorati abiti tradizionali, le renne mansuete, la lingua incomprensibile sono ricordi lontani. Solo una cicatrice è rimasta sul suo corpo ed è come un marchio che la accompagnerà per tutta la vita. Solo dopo capiremo perché da anziana si acconcia continuamente quella ciocca di capelli sull’orecchio sinistro. Solo dopo sapremo perché e quale ferita ha lasciato nella sua memoria.
Un film adatto solo ai festival? È la solita favola che si affibbia ai film che le case distributrici non fanno arrivare nelle sale, perché se questo è il biglietto da visita per la trentenne (nel 2016) regista Amanda Kernell (che in verità ha una certa rassomiglianza fisica con l’attrice Lene Cecilia Sparrok) ne vedremo ancora di belle storie e sarà bene stare attenti alla prossima realizzazione.
Intanto godiamoci questo bel film fatto di terra difficile, di animali, di erba fredda, di colline faticose da scalare, di gente ostile, troppo bionda e troppo chiara, dagli occhi e dallo sguardo gelidi, che guarda con sospetto e ha paura di venire a contatto con una ragazza che viene da lontano.
(Pubblicato su https://michemar.wixsite.com/website)
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