Regia di Amanda Kernell vedi scheda film
Quando sopraggiunge la notizia della morte della sorella minore, l'anziana Christina, donna svedese di origine sami, non può fare a meno che prepararsi per recarsi col figlio al funerale, tornando dopo decenni nei luoghi che la ospitarono durante la tribolata adolescenza. Ma la donna appare irrequieta e più scontrosa del solito: le ragioni non possiamo conoscerle, solo immaginarle, ma un lungo flash-back che ci riporta agli anni adolescenziali di Christina, sarà in grado di chiarirci molte cose, spiegandoci pure le drammatiche motivazioni che si nascondono dietro al rifiuto della donna di tornare a vivere anche solo per una notte nella casa della sorella defunta.
Quella di Christina, allevatrice di renne orfana di padre, costretta a frequentare una scuola sami ove le si impone di dimenticare la propria lingua e le proprie tradizioni, e la si sottopone ad un trattamento discriminatorio che si estende ad ogni occasione di convivialità e scambio di rapporti nella comunità svedese che la accoglie, fu una infanzia segnata da sopraffazioni e maliziose ingiustizie; da amori potenti non pienamente corrisposti, o comunque non rispettosi della sua persona e della sensibilità che la pervade.
Opera prima della regista svedese Amanda Kernell, Sami Blood ha il coraggio di denunciare la sopraffazione e il clima di intransigenza e razzismo che la comunità svedese riservava alla minoranza etnica dei lapponi, gli abitanti della fascia più a nord della Scandinavia, includendo le regioni più settentrionali della Svezia e della Norvegia. Un popolo dedito alla pastorizia, umile e legato alle proprie tradizioni, e per questo osteggiato e umiliato dalla popolazione delle più popolose terre disposte a latitudini più basse.
Un film potente nel saper denunciare senza cedere a facili ricatti emotivi, l'intemperanza e l'ingiustizia adottate dalla solita maggioranza intollerante nei confronti di una minoranza che lotta fino alla fine per salvaguardare i propri diritti e la dignità di un popolo che poi, invero, la ripaga con la medesima arroganza di chi la vuole trasformare ed omologare in qualcosa d'altro ritenuto più opportuno e coerente.
E la forza di non cedere a ricatti sentimentali, mantenendo la durezza di sguardo che svia da facili soluzioni accomodanti o sin troppo ricattatoriamente melodrammatiche (quelle scelte ad esempio dal ruffiano, pretenzioso ed edulcorato The Nightingale di un'altra, ma certo meno sincera e genuina, regista donna, la scaltra e calcolatrice cineasta australiana Jennifer Kent, nel film visto tra scalpori e baraonde polemico/mediatiche a Venezia '18), finisce per essere la scelta più razionale e benefica che il film riesce ad adottare, vincendo per sincerità e pudore nello stile esemplare in cui viene raccontato il dettaglio di una discriminazione vergognosa, l'ennesima perpetrata nei confronti di una minoranza fieramente testarda, soccombente, umile, ma mai arrendevole o completamente doma.
E quando la morte pare aver interrotto ogni possibilità di conciliazione, ecco che il raziocinio e la razionalità che sembravano aver condotto a strade inconciliabili, finisce per riconciliare due sorelle, ma soprattutto due popoli e due umanità per troppo tempo inutilmente ostili l'una contro l'altra.
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