Regia di Amanda Kernell vedi scheda film
Nel tempo della Storia all’avventura si sostituisce la realtà quotidiana, ed è una guerra in cui non si vince. Il modello di assimilazione che Elle deve adottare non le darà certo felicità.
"C’era in lei qualcosa di nomade, di migrante. Lei stessa non sapeva. Era come camminare per una strada, apparentemente verso una meta, con un senso d’attesa che faceva rallentare il passo, l’attesa di incontrare prima, chi sa quando, una meta del tutto diversa, e di riconoscerla." Musil
Musil non sta parlando di Elle Marja, ma per quella capacità della letteratura di moltiplicare le storie fino, a volte, ad incontrare la tua, è lei che descrive.
Elle Marja (Lene Cecilia Sparrok) è centro di una composizione circolare che inizia dalla vecchiaia e vi ritorna per un epilogo atteso, annunciato in un piccolo indizio che si perde tra le scene iniziali del film, ma la memoria lo riafferra e lo riconosce.
Elle Marja sale su quella montagna dove Niklas (Julius Fleischanderl), al primo incontro, voleva portarla.
“E’ lì che i ragazzi portano le ragazze”
“Come lo sai?”
“Lo so.”
Elle Marja ci salirà, sola, tanti anni dopo, migrante nella vita per necessità e forse per destino.
Elle è quel che si definisce una drop out. Quattordicenne che non si adegua e va via, il suo viaggio è anche fatto di ritorni, le distanze che percorre sono brevi, coperte a piedi su strade e sentieri sconosciuti, ma sono un cammino di formazione a cui sembra votata per un istinto naturale, del tutto priva com’è di supporti familiari ed educativi.
Elle Marja, 14 anni, appartiene ad un’antica comunità Sami stanziata nel territorio più settentrionale fra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Confusi con i Lapponi, i Sami appartengono allo stesso ceppo ma, come capita alle comunità prive di una identità nazionale riconoscibile (pensiamo inevitabilmente ai Curdi), nei tempi bui della Storia sono le prime vittime sacrificali delle più aberranti teorie pseudo-scientifiche sulla razza e quant’altro.
Elle vive l’esperienza del razzismo e degli esami di biologia razziale nella piccola comunità in cui va a vivere e studiare con la sorella e le altre del suo gruppo.
Il governo svedese, siamo negli anni 30, fornisce supporti educativi a questa comunità a patto che resti nel ghetto in cui è confinata.
Le ragazzine sfilano con i loro costumi, sono guardate come fenomeni da baraccone dalla gioventù svedese alta, bionda e ben nutrita, della loro identità culturale restano i canti, ma anche la lingua è esposta a quella erosione che passa attraverso il condizionamento di modelli culturali forti.
Silenzio e sottomissione emergono come nota dominante, Amanda Kernell fa muovere i suoi personaggi con i ritmi lenti propri di chi vive ai margini e guarda, spesso senza capire, riuscendo solo a tacere per sopravvivere.
Elle no, per chissà quale demone interiore trova le parole per fare e farsi domande e i gesti per saltare lo steccato. La natura imitativa e contagiosa del desiderio, quella spinta a uscire dai propri confini per esplorare il mondo che il “piccolo selvaggio” ancora coltiva e vuol appagare, la spinge ad inventarsi il modo. Le sue strategie sono infantili, si muove con ingenuità e innocenza, le umiliazioni sono inevitabili ma Elle sa resistere, il breve ritorno al villaggio e alla madre sa di richiesta di una benedizione, come accadeva in un tempo mitico in cui l’eroe partiva per l’avventura.
Purtroppo nel tempo della Storia all’avventura si sostituisce la realtà quotidiana, ed è una guerra in cui non si vince.
Il modello di assimilazione che Elle deve adottare non le darà certo felicità.
Kernell ci racconta per brevi pennellate solo l’inizio del cammino, quello che le interessa far emergere è il focus sul personaggio e il suo impatto con l’ambiente, estraneo ma non ostile, siamo nella civilizzatissima Svezia, val la pena di ricordarlo.
La convivenza con gente di cultura diversa, il popolo dei dominatori, è pertanto asettica, la lontananza da quei modelli siderale, la proprompente fisicità di Elle contrasta con la sinuosa eleganza dei corpi delle nuove compagne di scuola, quello che lei scambia per accoglienza è solo un educato fair play che copre una sostanziale indifferenza mista a malcelato compatimento.
Eppure Elle Marja, piccola, non bella, silenziosa presenza che sa guardare e dire le parole giuste, è una figura che non si dimentica. Di lei la regista riesce a dire tutto, anche quando la fa sparire dalla scena per farla tornare tanti anni dopo, invecchiata, scarmigliata com’era da bambina, ma ora la sua treccia è grigia.
Il cammino si è consumato, la scelta è la solitudine.
Resta ancora un ultimo appuntamento, prima di salire sulla montagna, ed è con la sorella che dorme nella cassa di pino davanti all’altare.
Le chiederà di perdonarla.
Film di lenti silenzi e grandi spazi solitari, dove corrono renne e si accendono rare luci di villaggi, sorprende e riempie di una strana malinconia. I toni non si accendono mai, neppure in presenza di scenari di ordinaria follia. Tutto riesce a sembrare normale, ed è tanto più agghiacciante.
La somministrazione di sofferenze incredibili passa per normale processo educativo, ma la sistematica denigrazione della propria cultura produrrà solo rifiuto della stessa fino a quando ci si accorgerà di aver sbagliato, di essere stati espropriati di quello che si possedeva di più prezioso, ma a quel punto non resterà altro da fare che chiedere perdono ai morti.
La piccola Elle Marja non muore in mare né conosce l’orrore dei lager, la sua condanna sarà arrivare, consapevole, alla vecchiaia.
www.paoladigiuseppe.it
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