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The War Show

Regia di Andreas Dalsgaard, Obaidah Zytoon vedi scheda film

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La recensione su The War Show

di EightAndHalf
6 stelle

Per la coppia di registi Andreas Dalsgaard e Obaidah Zytoon regia vuol dire innanzitutto responsabilità. Si assumono la responsabilità di ciò che si sta per vedere, e si rivelano consapevoli di quale arma possa essere l'immagine. Soprattutto Obaidah, che fa da "cameraman" in questo viaggio tragico nelle movimentazioni che hanno immediatamente preceduto, tra il 2011 e il 2012, le esplosioni belliche in Siria. Dalle rivolte di Damasco e ai più violenti conflitti armati, la regista ha sempre il coraggio di mettersi in prima fila alla faccia delle bombe e dei proiettoli vaganti, come da buon manuale dei giornalisti di guerra. Tutto per lo "show" del titolo, uno show efferato di cui sono palpabili l'urgenza e la necessità.

 

 

Presentato nella sezione Giornate degli Autori di Venezia 73, The War Show decide di trasformare la cinepresa e, per estensione, l'immagine, in un mitra. In effetti le scene arrivano sguinzagliate con rapidità e violenza, seppur cesellate nei 7 capitoli in cui è divisa la pellicola. Il lavoro di post-produzione è evidentemente accuratissimo, anche troppo: da un punto di vista prettamente tecnico, stona non poco l'assoluta omogeneità e la pulitura del montaggio sonoro (in totale contrasto con le immagini, per lo più amatoriali, girate con un'economicissima videocamera). D'altro canto, è questo lavoro di montaggio che ha portato il film ad assumere dei connotati probabilmente più organici, da vero testo espositivo sui conflitti siriani, soprattutto intestini. Da un lato il regime della famiglia Assan, dall'altro i ribelli che cercano l'appoggio delle potenze internazionali senza essere ascoltati. Dalsgaard e la Zytoon non generalizzano, guardano senza idealizzare anche alle degenerazioni estremiste dei ribelli (tra le file dei quali sta proprio la Zytoon, cui si deve dunque il merito di una posizione imparziale e problematica). E riescono a giustificare un tono a tratti compassionevole e - diciamo pure - romantico mettendo in primo piano la personalissima storia di Obaidah.

 

 

Obaidah è infatti componente di un gruppo di giovani amanti della libertà e più o meno attivi tra le fila degli insurrezionalisti. Tra dubbi e incoraggiamenti, timori e aggressività, vediamo la giovinezza di questi ragazzi spazzata via dalla disillusione della lotta armata o dell'assenza di libertà. E' forse su questo versante che il film funziona di più in quanto cronaca: mentre si rivedono le immagini festose e sorridenti dei vari personaggi, la voce di Obaidah racconta di come sono stati arrestati, torturati o uccisi dal regime. I suoi racconti sono anche più violenti di alcune immagini che mostra, e che non si risparmiano ferite e/o colpi di armi contundenti e da fuoco. In questa mattanza che è sia fisica che generazionale, Obaidah mette continuamente in discussione (esplicitamente) il suo rapporto con la realtà; lo dice lei stessa, dopo aver visto il video dell'intervento chirurgico alla bambina ferita. Presta attenzione ai bambini, che si appassionano ai fucili e alle manifestazioni (con scarsa coscienza: uno di loro commette una gaffe affermando di desiderare un governo islamico, piuttosto che un governo civile). Ritrae l'esercito libero di Siria con una sottile ironia macabra che ricorda, nella composizione visiva, i quadretti di Seidl (l'uomo che abbassa il fucile del compagno perché gli copre la faccia). Racconta le passioni dei suoi giovani amici vittime della Storia (tra queste, la musica). Ed è prudente nel censurare i volti dei coinvolti, accorgimento necessario che fa però venire un po' nostalgia del ruolo che gli sguardi possono avere nei documentari storici (il Sobytie di Loznitsa a Venezia 72 era loquace al riguardo).

 

 

Un documentario informativo che riesce anche ad essere esperienza, importante e forse per questo più "utile" che davvero cinematografico.

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