Regia di Denzel Washington vedi scheda film
Non un sussulto, non uno strappo di regia, non un’invenzione che ridesti dallo sbadiglio.
Brutto esempio di teatro filmato.
Fences, le barriere del titolo, sono quelle che connotano la vita di Troy Maxson, operaio nero nella Pittsburgh degli anni 50. Barriere mentali, quelle della differenza di razza che come un continuo moto ondoso di riflusso sferza indifferentemente le vite di bianchi e neri.
Le barriere sono anche quelle fisiche della staccionata che Troy su indicazione della volitiva Rose sta da qualche tempo montando attorno al pezzo di giardino incastonato tra le case popolari che compongono il microcosmo di quartiere operaio nel quale i sogni rimangono impigliati nei fili da stendere.
Un dramma Barriere sceneggiato da August Wilson, autore anche dell’omonima pièce teatrale di enorme successo poi trasposta al cinema per la regia dello stesso Denzel Washington, attore insieme con Viola Davis della versione teatrale.
La versione cinematografica inserita nel novero dei candidati ai recenti Oscar 2017 diciamolo subito a scanso di equivoci, non è all’altezza di un riconoscimento simile. A parte Viola Davis, straordinaria attrice teatrale e cinematografica, intensa e misurata (giustamente premiata con l’Oscar), Barriere è un film molto poco riuscito. Neppure un film, viene da dire vista l’incapacità di Denzel Washington di smarcarsi dall’impianto teatrale che gli ha regalato successo e del quale ha cercato di replicarne gli stilemi. Il cinema non è il teatro.
La regia piatta di Washington ammorba con 138 minuti di teatro filmato senza filtri, costituito da una storia verbosissima tediata all’inverosimile dalla solita pantomima recitativa dello stesso Washington, sempre costantemente in overacting. Tra mossette e facciotte, interminabili monologhi e lunghissimi primi piani, il regista si costruisce da solo il palco sul quale il proprio ingombro riduce gli altri attori, molto più misurati di lui, a ospiti sgraditi relegati in un angolo dello schermo, sempre in secondo piano rispetto al mattatore. Barriere cinematografiche che Denzel Washington si è costruito a propria immagine e somiglianza di modesto, modestissimo attore, ancor meno capace regista di andare oltre il proprio ego.
Non un sussulto, non uno strappo di regia, non un’invenzione che ridesti dallo sbadiglio. A questo disastro concorre la sceneggiatura tratta dallo spettacolo teatrale, sproloquiante di dialoghi buttati al vento. La vita, la morte, il rapporto con i figli, l’amore, sono i temi filtrati attraverso le maglie grosse di un setaccio razziale stravisto, (straudito, in questo caso) ridotto a un ridondante refrain senza spessore.
Eppure esempi notevoli di drammi in un interno ce ne sono, e anche recenti. Il capolavoro di Tarantino The Hateful Eight ad esempio. Carnage di Roman Polanski, o se vogliamo stare entro i confini nostrani, Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Esempi di scrittura brillante e regia eclettica, modulata sugli spazi stretti che abitano con sicurezza scoprendo un mondo nascosto, quello dietro le parole.
In Barriere ce la si canta e ce la si dice, i drammi si raccontano, ci si deve credere. Si deve credere a un finale che ribocca presunzione autoriale, visivamente irricevibile. Un pasticcio, Barriere.
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