Regia di Denzel Washington vedi scheda film
Negli anni cinquanta, la crisi del cinema americano (che eviterei di spiegare ai pochi sventurati che supereranno questa parentesi) indusse alcuni produttori a trasporre sul grande schermo originali televisivi o opere teatrali che raccontavano le difficoltà della classe media, i guai familiari dei ceti popolari, la realtà urbana e via dicendo(un nome per orientarsi: Paddy Chayefsky). Parallelamente, un lento processo portò il mainstream ad occuparsi anche degli afroamericani (diciamo i film con Sydney Poiter, benché da taluni considerato organico al “cinema bianco”), minoranza ghettizzata e vittima del razzismo, in procinto di combattere in nome dell’uguaglianza e della libertà. Alla base, la vocazione al melodramma, il riscatto dell’individuo, una famiglia americana alternativa alla narrazione ufficiale.
Tutto ciò per arrivare a Barriere che, oltre ad essere l’adattamento di un fortunato testo teatrale di August Wilson scritto nel 1983, è un film inesorabilmente anacronistico. Lo è per la sintassi adottata da Denzel Washington (che l’ha interpretato a teatro per anni assieme a Viola Davis), in cui domina una claustrofobia, anche quando en plein air, tipica del cosiddetto teatro in scatola in voga cinquant’anni fa. Al cinema, Barriere manifesta troppo visibilmente le metafore del teatro: la staccionata, che circonda il cortile domestico vede depotenziata la sua carica simbolica nel momento in cui si vede ciò che c’è al di là della barriera stessa. Più che “far prendere aria al testo”, che è il valore in più di lavori simili, la ricostruzione della Pittsburgh operaia sembra non trovare mai una dimensione significante al di là del suo essere il mero sfondo di una vicenda proletaria.
Ma forse questa presunta superficialità dimostra che il vero interesse di Washington risiede proprio a livello simbolico.
Allora questa versione di Barriere va letta nei termini di un apologo popolare sulla vita delle persone in cui la semplicità espositiva è l’elemento fondamentale al servizio del testo, una specie di deferente omaggio alla potenza narrativa di Wilson. La fortuna al box office americano (e di riflesso la sostanziale indifferenza in Italia) consacra, in fondo, lo statuto classico di un autore che è riuscito ad entrare in un canone contemporaneo raccontando una parte di America non rappresentata nella sua quotidianità. Cosa che non fa un film come l’appena oscarizzato Moonlight, che sceglie la strada dell’eccezionalità (un personaggio ai margini e una regia visivamente audace) nell’ambito di un percorso di crescita. La vitalità che gli manca sul piano estetico la trova nella gestione dei corpi attoriali, perché Barriere è fondamentalmente un veicolo per attori e soprattutto per questi due attori, due divi i cui nomi, in locandina, sovrastano i cognomi.
Ma se Washington risente di una mancanza di (auto)controllo che da una parte denuncia una fin troppo rodata abitudine al personaggio e dall’altra l’assenza di un regista capace di mitigare il suo consueto overacting, è Davis ad impossessarsi davvero della storia. Un talento maturo che si esalta nel melodramma flirtando col furore senza eccedere nello strepito, annullando il pietismo con l’orgoglio del suo volto fiero, contaminando il dolore di tenerezza. L’Oscar l’ha vinto come non protagonista per la solita furbizia di occupare la categoria più facile da espugnare. L’avrebbe meritato comunque, se non altro per come piange dal naso e per il finale conciliante in cui, con pochi gesti, sa comunicare la fatica del perdono.
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