Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film
CINEMA CONTRO L’UMANITÀ.
“L’Uomo è la punta della piramide, l’uomo decide, ed ora ci sono così tanti uomini, siamo troppi, questo dettaglio innesca la morte della natura, la natura non esiste più, questo si può accettare oppure no.”
Fuori concorso a Venezia 73, insultato, mal votato, bocciato caparbiamente e ricoperto di luce provocatoria, sdegnante e reazionaria, poi inaspettatamente distribuito in Italia da Lab80. Che un film di Ulrich Seidl arrivasse nei Cinema italiani non accadeva dai tempi di Canicola, Leone d’Argento (Venezia 58) catapultato nelle sale il 09 Novembre 2001, quest’incipit sta a simboleggiare l’extra-significato evocativo che quasi ogni opera dell’artista Viennese esercita sul sottoscritto, parlare di “provocazione” non è superfluo, ma superato, è Cinema Anti-Specista, quindi Arte che arranca dinnanzi la filo-espressione massima della cinematografia mondiale degli ultimi 40 anni, Cinema contro la bellezza, che impersonifica il disagio, il rigurgito (con vomitatoio annesso) di un umanità stanca, spremuta, che non ha mai creduto alla trascendenza (ipotetica, buonista) scaturibile dal “guardarsi allo specchio.”
“Gli uomini rimuovono con molta semplicità, non amano guardarsi allo specchio, ma con il Cinema può accadere che quello che un uomo è torni allo spettatore.” – Ulrich Seidl.
Preludio: Si torna in Kenya, forse ad evocare l’ectoplasma di quella visione spietata e randagizzante che fu Paradise : Love, un film che (come altri) quantifica la filmografia di Seidl come – ciclica e sperduta -, un sigillo brulicante di dolore ed insoddisfazione per lasciarsi alle spalle gli ex-“cicli” (per l’appunto), di nichilismo gratuito ed annichilimento piatto (mortificante, disperato), composti dai vari Der Ball, Tierische Liebe, Models, Canicola, Jesus, You Know, Import/Export ecc. Si aprirà a quel punto uno degli atti cinemagrafici più sprezzanti del ventunesimo secolo, la Paradise Trilogy, la quale prosegue con l’ennesimo caso di “accuse reazionarie” masticato dall’uomo di Vienna, Paradise : Faith, il quale pur uscendo da Venezia 69 con il Premio Speciale della Giuria attira le attenzioni clericali per poi concludere in tribunale sotto la targa giornalistica di “CristoFobia”. Il 2012 si chiude contemplando un Ulrich Seidl più stacanovista che mai e con le prime luci del capitolo conclusivo, Paradise : Hope, farcitura (auto-)analitica del suo stesso Cinema, del suo modo di concepire l’esistenza, oppure soluzione raffinata della propria espressione poetica.
Vacanzieri “coloni” Viennesi, quelli con una riserva nella “natura” più sperduta, con un paio di Kenyoti “tuttofare” per famiglia e con grandi cifre di denaro investite nell’attività – “Un cacciatore qui spende in una settimana quello che spende un turista in un mese”-, assistiamo gradualmente alle sedute di caccia; si parte con “lo Gnu dai muscoli striati”, il silente Seidl si muove in campo aperto con la mdp a spalla, seguendo passo per passo le gesta degli scherzosi cacciatori, i quali in pochi minuti avvistano la preda, sistemano il cavalletto e diramano tutta la loro professionalità con un fucile in mano, gli spari sono veri, il sonoro è semi-irricercabile, di una freddezza disarmante che banalmente può sfociare (a seconda della sopportazione spettatoriale) in demenza di default, in risate non del tutto criticabili dinnanzi’ -feste familiari con una carcassa sanguinante di mezzo-, dopo di ché il Kenyota “ubbidiente” di turno va alla ricerca di sassi posizionabili sotto il muso del cadavere, è ora della foto, un’ammissione di ilarità solenne, confermata e riproposta poi dialetticamente dai cacciatori.
Questo è il mantra di una visione epocale, un atto di derisione universale di cui si sentiva la mancanza, smontante l’immaginale ritratto dell’autore divertito (sbellicato) dietro tutto ciò.
Dalla pratica fisica della caccia si passa a filosofeggiare sul ruolo dell’uomo nel mondo di oggi e di quello dell’uomo -bianco- in Kenya, sì, un ricco “monarca” del posto, con tanto di salotto che ricorda il laboratorio di un tassidermista, sostiene che esistano ragioni antropologiche per le quali un uomo di colore è predisposto a svolgere le mansioni imposte (in quel caso) da lui, le dinamiche shockumentaristiche si dilatano nella fase di ascolto, un giovane che caccia con i propri genitori parla delle emozioni scaturite dallo sparo, dall’animale visionato nel mirino e dalla contemplazione del momento, la descrizione tratta del battito cardiaco da addomesticare dopo un colpo, dice di inspirare consciamemte per abbassare la propria pressione, questo è associabile alle prerogative della droga, per loro uccidere un animale sembra davvero essere una soluzione portatrice di serenità, le fasi della caccia sembrano davvero suscitare una reazione chimica su di essi.
Ci perdiamo per qualche minuto stringato qui e là davanti i campi medi (Docet) di Seidl decorati con un numero industriale di volti animali imbalsamati, i Kenyoti al centro dell’immagine masticano lembi di carne cacciata e poco cotta, scelta interpretabile ma del tutto condivisa dal sottoscritto, sa’ di “provocazione coloniale”, infastidente, ghettizzante, una delle tante stronzissime scelte autoriali a cui assistiamo con espressione di disgusto. Fra velate forme di moralità respinta e qualche chiacchiera sui narcisistici “sogni di caccia” prosegue la conta delle vittime filmate, il processo post-mortem di una zebra, dalle foto “di famiglia” alla Morgue, dove africani “macellai deprivati” eseguono un autopsia completa, via il mantello a striscie, via gli zoccoli, poi a mani nude fra le viscere, tirare fuori intestino e stomaco è un lavoro di gruppo. Anche questa volta il Cinema incontra la Morte, la contempla… L’impatto visivo del massacro di Safari ricorda vari celebri capolavori emblematici del settore, più di tutti ai miei occhi The Act of Seeing with One’s own Eyes. (Stan Brakhage, 1971), ovvero un’altra esemplificazione di “Poetica ricerca dell’anima”, attraverso lo smembramento, per l’appunto.
La verità emerge, Ulrich Seidl confeziona un trattato genocida epocale nel suo marciume, nel quale ci si sguazza, in questo modo viene toccato l’apice dell’orrore concettuale/impressionistico, -sguazzando- come un macellaio kenyota che scivola nella pozza di sangue di una giraffa. Spietato, ci voleva.
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