Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film
Le sang des betes.
Georges Franju nel 1949 era riuscito ad estrarre dalle crude immagini degli squartamenti nei mattatoi parigini un fastidioso senso di disturbo e ribrezzo: aveva messo al suo posto la razza umana e il di lei punto di vista.
Seidl ha un occhio più attento, e meno rivoluzionario. Le sue carcasse sono la naturale evoluzione delle carcasse umane che lui ha sempre messo in scena, e che non sono mai riuscite a privarsi del loro peso ingombrante, della canicola, delle manie e della sporcizia. Seidl non cerca l'indignazione, ma riflette sull'immagine, sulle sue potenzialità documentative, sulle sue insidie, sulle sue significanze. La sua è una cronaca gelida dell'hobby di alcuni austriaci in vacanza in Namibia: dare la caccia agli animali selvatici. Non dimostrano nemmeno grande abilità, cercando sempre bersagli facili e immobili. Sono la chiara esemplificazione di un'umanità negletta, ripudiata, abbandonata a se stessa, svuotata, autoannichilita. Le opinioni di questi esseri umani sono brutalmente scontate, contentini consolatori: gli esseri umani di Safari non percepiscono nemmeno la loro presenza nel mondo, alienati dalla natura umana stessa. Ma Seidl li documenta nel mondo, e non li giudica, non ne ha interesse. A lui importa solo dell'immagine.
In Safari il ritmo è rituale, o ritualistico. Seidl alterna con estrema accortezza da un lato le interviste, nelle quali rivolge ai personaggi delle domande fuoricampo montando solo le risposte (chiede delle reazioni animaliste, delle esperienze sul campo, del significato vero della caccia, della morte), e dall'altro una mdp sorprendentemente a mano con la quale segue gli individui nelle loro battute di caccia. Il risultato ha un effetto alienante sullo spettatore, così tanto orientato nei confini dritti e definiti dell'immagine da risultare destabilizzante. Un labirinto visivo in loop. L'impatto che banalmente si definisce provocatorio del cinema seidliano qui è inferiore, meno duro, ed è concentrato tutto nelle due lunghe scene degli squartamenti di una zebra e di una giraffa. In questo senso il film intrattiene meno di quanto avrebbe potuto fare Im Keller, affrontando duramente i tempi reali, morti, delle cacce. Ma non nega per questo la sua solita macabra ironia, dettata dal montaggio e dalla fissità delle inquadrature, né il suo marchio di fabbrica, i ritratti imbambolati dei suoi tableaux vivants, degenerazioni supreme di immobili fotografie. Il tono in Safari sembra essere addirittura più maturo, rispetto ai film precedenti: è in gioco il carattere rituale/religioso delle azioni dei personaggi, il loro aspetto quasi liturgico. Ognuno di loro ha fede in ciò che fa, e pensa di rispondere alla propria esistenza in tutti i suoi versanti, pensando di aver colmato tutte le proprie personali contraddizioni. Seidl non lo nega, ma implode in un loop stordente che non può non far pensare: alla fine di ogni battuta di caccia, l'uccisore del caso si mette in posa accanto al cadavere dell'animale, e si fa fotografare. A nessuno viene in mente la compassione, ma solo il rispetto di fronte al poderoso animale, e al cacciatore.
In questo carnevale impazzito ma silenzioso, ghiacciato e asfissiante, Seidl propone l'altra faccia della religione Immagine, e lo fa con uno dei suoi finali più strazianti. Mostra infatti i ritratti di africani del luogo, intenti a riscaldarsi di fronte a un fuoco, o a fissare lo spettatore seduti nel loro bugigattolo. Durante il film li si è visti collaborare con gli austriaci nelle loro attività turistiche, e, una volta liberati dai loro oneri, li si osserva seduti in casa, in un'atmosfera che ha dell'onirico e del funebre, lapidi di un cimitero filmico di anime.
Safari sembra distanziarsi dal cinema precedente di Seidl per l'utilizzo della camera a mano, che coglie nel suo farsi l'azione spontanea, ma la vera differenza sta nell'esplicitazione finale della sua angoscia. Il che lo rende paradossalmente ammorbidito. Non è questo un drawback, ma la conferma che da Seidl può giungere davvero a qualcosa di nuovo, che qui è solo in potenza.
Importante citare le due sequenze "incriminabili", quelle dei mattatoi. Il dettaglio e l'ostinazione nell'occhio di Seidl sono due delle cose più intense di Venezia 73, e hanno più una natura esperienziale, che tematica. Si fa presto a dire che sono immagini gratuite, ma negli anfratti del mondo e dell'essere umano c'è anche questo, lo schifo la merda e il sangue, e possono fattivamente essere viste anche queste cose, a prescindere dalla loro bruttezza. Safari e tutto il cinema di Seidl ci fanno vedere ciò che non vediamo, ma che di fatto c'è, e più che esserci si vede, e le due sequenze qui citate hanno tutta l'urgenza di questa necessità espressiva.
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