Regia di Andrzej Wajda vedi scheda film
Un’altra uscita importante, quasi sorprendente: un film che nel corso di questi anni pochi hanno visto, nonostante sia l’ultima fatica di Andrzej Wajda, il grande regista polacco, che nel 2016, qualche mese dopo averlo diretto, ci ha lasciati a novant’anni.
Si tratta di un film storico e biografico, commossa riflessione sull’amara fine di Wladyslaw Strzeminski, uno dei più grandi artisti del Novecento, nato a Minsk nella Bielorussia zarista nel 1893. A Pietroburgo era diventato ingegnere, ma, dopo la rivoluzione d’ottobre, aveva studiato arte a Mosca, partecipando attivamente ai movimenti d’avanguardia con K. S. Malevic e frequentando artisti come Kandinsky e Chagall.
Nel 1922 aveva lasciato la Russia per vivere in Polonia a Lód? con la moglie, la scultrice lettone Katarzyna Kobro, con la quale aveva vissuto una grande storia d’amore, interrotta all’improvviso, nonostante la presenza di una figlioletta ancora piccola.
Amato e rispettato dalla comunità degli artisti (ma anche invidiato, come sempre accade ai grandi uomini), aveva diretto l’Accademia delle arti di quella città finché, dopo il 1948, per effetto della spartizione dell’Europa, la Polonia era entrata a far parte dei paesi satelliti della Russia Sovietica e il partito comunista era diventato l’inflessibile esecutore delle direttive staliniane.
Wayda ricostruisce, dunque, proprio gli ultimi quattro anni della vita di Strzemi?ski, dal 1948 al 1952, mantenendosi fedele all’ideale da cui l’intera sua vita da regista era stata guidata: la rivendicazione della libertà polacca, dall’oppressione della Russia sovietica, che, nel caso di questo film è all’origine delle sofferenze e delle umiliazioni che il grande artista aveva subito pur di non piegarsi alle minacce o alle lusinghe del nuovo potere.
Strzeminski, infatti, fu stroncato dagli stenti che avevano aggravato la debolezza del suo corpo fragile, già minato dalla tubercolosi e dalle mutilazioni subite durante la prima guerra mondiale, ed era morto amareggiato per la solitudine e l’isolamento a cui si era costretto per proteggere i discepoli, che non solo avevano raccolto le sue teorizzazioni, ma avevano salvato il corpus delle sue opere più importanti, nascondendole negli scantinati dell’Accademia di Lódz.
Come sempre in Wayda, l’intento della denuncia non diventa mai pura propaganda, ma offre, al contrario lo spunto per un racconto umanissimo fatto di immagini e di poesia, dalla prima all’ultima scena.
Insieme alle pagine struggenti che ci parlano della dignitosa povertà dell’uomo, con esemplare semplicità, senza mai scadere nel pettegolezzo o nell’agiografia, il film contiene pagine indimenticabili per la potenza simbolica delle immagini che evidenziano il suo amore per la terra che lo ospitava: è l’artista che dalla cima di una collinetta raggiunge, rotolandosi nell’erba, gli studenti che si uniscono a lui in una sorta di giocoso incontro bizzarro en plein air; oppure è l’artista imbrigliato dai nastri colorati che mettono in moto gli arti dei manichini di una vetrina o, ancora, è l’artista a cui un tendone rosso, sfondo di un gigantesco ritratto di Stalin, impedisce di vedere la realtà.
Forse è questa la scena che più efficacemente esprime l’orrore per l’pocrisia della “verità” di regime che, mentre cela agli occhi dei passanti un intero palazzo “déco”, col pretesto della solidarietà socialista, vorrebbe impedire a Strzeminski, che abita lì, la visione chiara delle cose che gli appartengono: dai libri, ai ritratti, alle fotografie, agli oggetti di uso quotidiano, ai ricordi più cari, tutti avvolti (e resi indistinguibili) dal colore sinistro di quel tendone che, arrivando alle finestre, impedisce anche la visione della realtà esterna. La sostanza stessa del realismo socialista non potrebbe davvero essere detta meglio!
Momenti di grande cinema, e di grande commozione per tutti, particolarmente per quegli spettatori meno giovani che avrebbero voluto cambiare il mondo guardando anche a quel modello di socialismo…
Non fatevelo sfuggire, se potete.
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