Regia di Ala Eddine Slim vedi scheda film
Venezia 73 – Settimana della critica
Il tema dell’immigrazione, che porta masse oceaniche di persone a spostarsi dai paesi più poveri verso l’Europa, è tra i più attuali, anche al cinema come dimostra la vittoria di Fuocoammare a Berlino 2016, ma The last of us non lo utilizza per fini didattici o divulgativi, ma come inizio di un percorso umano verso qualcosa che va oltre.
N s’imbarca in un lungo viaggio dall’Africa per raggiungere la tanto agognata Europa. Durante questo estenuante tour de force si trova a dover affrontare ostacoli estremi.
Per lui le cose cambiano drasticamente quando, dopo essersi impossessato di una piccola barca, si ritrova immerso in un ambiente naturale dove vivrà esperienze inattese.
Il regista tunisino Ala Eddine Slim parte dal concreto più tangibile e doloroso per poi immergersi gradatamente in atmosfere di tutt’altro tipo che comunque trovano un filo conduttore comune nell’immagine di una nuova esistenza.
Così, dopo gli episodi traumatici propri di un viaggio che inanella il deserto più torrido, le autostrade (suggestive e simboliche il punto di vista in prima persona che guarda ciò che c’è alle spalle) e il mare aperto affrontato con una barca inadatta, il protagonista si ritrova in un ambiente fuori dalla realtà, conoscendo un uomo che pare giungere direttamente da un’altra era (dimensione) e un tocco di fantastico lo conduce verso una nuova conoscenza spirituale, in una sorta di nuova nascita individuale.
Ovviamente, tutto è realizzato in economia e il film ha dalla sua parte il coraggio di eliminare ogni forma di comunicazione orale, anche laddove sarebbe stato possibile, e la natura rievoca un fascino ancestrale pur nella rappresentazione terrena, al di là di un elemento fuori equilibrio, anche se la sua presenza non possiede la potenza evocativa che altre opere sono riuscite a manifestare negli ultimi anni.
D’altro canto, i tempi sono fin troppo diluiti, con immagini che rimangono immobili dinnanzi allo sguardo più del necessario rischiando di appesantire molti passaggi, o rendendoli proprio estenuanti, escludendo la fase d’apertura e la trasformazione finale, che rimane il vero punto focale dell’opera.
Una lentezza che in tante occasioni non è circostanziale al racconto e che rischia seriamente di annacquare le qualità di un’opera coraggiosa, e comunque tutt’altro che sprovveduta, articolata tra il tragico reale e una trascendenza nella natura.
A tratti affascinante, ma anche troppo speculativo sulle intenzioni d’autore.
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