Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Un Moretti diverso, nella seconda fase della sua cinematografia, qui per la prima volta nei panni di se stesso, ufficialmente. Un pezzo di cinema da portarsi dentro, per ridere e riflettere.
Caro Diario segna una svolta decisiva nella cinematografia morettiana: il giovane e giovanissimo regista è divenuto "maestro", e ora può spogliarsi dell'alter ego Michele Apicella, per raccontarsi in modo più diretto. Anche le tematiche sono completamente diverse: prima si potrebbe dire che fosse il protagonista a ruotare attorno al mondo che lo circondava, mentre qui la prospettiva è invertita, e ad essere "incidentale" è tutto il resto del mondo. Ormai il regista è personaggio e può contare su un pubblico di estimatori e ammiratori, interessati alle sue vicende, anche se non eccezionali o eccezionalmente narrate.
La dimensione surreale dei film precedenti va attenuandosi, pur non scomparendo del tutto: permangono situazioni e personaggi curiosi e a tratti inverosimili, ma nulla a che vedere con le scorribande freudiane di Sogni d'oro, o con le interrogazioni dell'esame di maturità in Ecce Bombo.
L'opera è suddivisa in tre capitoli: "In Vespa", "Isole" e "Medici". Si tratta di una tripartizione che scompone letteralmente il lungometraggio in segmenti autonomi. Il primo, a parere di chi scrive il migliore, combina una notevole cura per la fotografia e nel montaggio, con riflessioni sociali e sociologiche. C'è meno Nanni che nelle altre due: su tutto domina Roma, di cui strade e quartieri si dipanano attraverso una analisi simil-documentaristica che coniuga spunti personali a riferimenti culturali e storici. Un tributo ricolmo d'amore verso la sua città, che viene consegnata alla memoria degli spettatori sotto una luce inusitata. Già riuscire a dire qualcosa di originale sulla città eterna, cui vengono dedicate opere di ogni tipo da millenni, è molto più che qualcosa.
Anche "Isole" presenta paesaggi che non lasciano indifferenti, ma tuttavia si percepisce il distacco emotivo dietro la macchina da presa: qui la bellezza naturalistica è in sè e per sè, ma senza anima nè aneddoti. Viva, ma non vissuta, e quindi con molto da vedere ma nulla da dire: quasi solamente un elegante sfondo alla ricerca di sè del protagonista, e di un Renato Carpentieri che rappresenta in modo gustoso il disorientamento culturale di fronte alla imperante scatola televisiva e alle dipendenze da essa.
"Medici" è forse l'episodio meno ispirato, complice anche la tematica più cupa. A parte questo, però, non si può dire che manchino gli spunti di riflessione: con qualche punta di cinismo, Moretti stigmatizza abilmente l'industria della salute e le sue infinite contraddizioni. Peccato solo che questi spunti restino isolati, anzichè condurre a una migliore consapevolezza di certi meccanismi (vd. Il venditore di medicine).
Con Caro Diario, insomma, si apre un nuovo capitolo quanto a stili, temi e protagonista. Si tratterà comunque di una parentesi, che, per ora, può considerarsi estesa ad Aprile, e, in un certo senso, a Mia madre, dove Moretti sarà semplicemente "Giovanni". Subito dopo la doppietta prettamente autobiografica degli anni 1993-98, ci sarà un ulteriore passaggio evolutivo, con l'apertura di nuovi orizzonti e la sfumatura anche verso ruoli marginali o veri e propri camei.
Sicuramente molto distante da Palombella Rossa, che, pur pregno di significati e simbolismi, risultava monotematico e assai più monotono e ridondante di tutte le altre opere del regista, rappresenta comunque una netta virata rispetto a tutto ciò che l'aveva preceduto, e proprio per questo difficilmente può esser posto sullo stesso piano. La (relativa) normalizzazione espositiva racchiude in sè il sicuro potenziale per attrarre nuovo pubblico, meno di nicchia. Dall'altro lato, però, il distacco da quella dimensione, a tratti onirica e visionaria, delle opere precedenti, lascia il segno e segna uno spartiacque. E, forse, l'unico vero difetto che si può trovare in Caro Diario è proprio quello di aver perduto qualcosa (di impalpabile) che prima c'era, e che, dopo, non ci sarà più. Fuori di ciò, è un'opera godibilissima, con dialoghi (e monologhi!) di grande spessore, musiche come da tradizione del regista (quindi molto curate), fotografia ricercata e pregevole, e molti spunti di riflessione. Da vedere, e rivedere, nel corso della vita, per confrontarcisi e per goderne: qualcosa da cui il cinema ci sta inesorabilmente disabituando.
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