Una volta li chiamavano film di propaganda per definire quelle pellicole che più di altre si schieravano a favore delle scelte politiche dei governi di una determinata nazione. Dal punto di vista numerico a garantirsi la nomea sono stati soprattutto i film appartenenti al filone bellico, i quali, da Berretti verdi del 1968 a Once Were Warriors girato da Lee Tamahori nel 1994, hanno utilizzato il pathos suscitato dalla morte sul campo di battaglia per costruire discorsi apologetici a favore di questa o quella nazione, giustificate nella loro opera di aggressione o di difesa dalle gesta eroiche dei vari protagonisti. A questo genere di contesto appartiene di diritto il film di John H. Lee Operazione Chromite, ricostruzione dell’operazione che nel 1951 permise alla coalizione delle Nazioni Unite guidata dal generale Douglas Mac Arthur (un Liam Neeson al minimo sindacale) di sbarcare nella baia di Incheon, impedendo all’allora esercito della repubblica democratica di Corea di completare l’invasione di quella parte di territorio – a sud della penisola – che oggi è sotto la sovranità della controparte filo occidentale, denominata appunto Repubblica di Corea.
Nel suo essere strumento di consenso mediatico prima ancora che un prodotto di intrattenimento popolare Operazione Chromite ha dalla sua il fatto di sovrapporsi agli avvenimenti della cronaca contemporanea, ripresa quando si tratta di costruire le psicologie del cattivo – Lim, Gye-jin, il comandante dell’avamposto nord coreano – sulla falsariga del dittatore, a cui non a caso rimanda anche l’ovale dell’attore utilizzato per la parte. Giocoforza, al di là di ogni normale considerazione sulle ragioni degli uni e degli altri, si capisce come diventi impossibile con tali premesse non parteggiare per la squadra di valorosi (l’unità segreta “X-RAY”) che, agendo sotto copertura, si infiltra oltre le linee nemiche per sottrarre informazioni utili ad agevolare lo sbarco degli alleati. In questo senso Lee non si fa pregare, costruendo la vicenda attraverso una serie infinita di scene madri e mediante il confronto di personaggi speculari, con i buoni – sud coreani – belli, virtuosi e disposti al sacrificio al contrario degli avversari, il più delle volte colti in atteggiamenti capaci di superare per spietatezza ogni umana comprensione. Che fossimo lontani dalle riflessioni filosofiche di opere quali La sottile linea rossa e Lettere da Iwo Jima era quasi scontato, ma ritrovarci di fronte a una tale partigianeria sembra quasi un auto goal per gli autori, se non fosse che in patria il film si è rivelato un ottimo successo commerciale, giustificando quindi le strategie dei produttori.
Sotto il profilo cinematografico è invece apprezzabile il pragmatismo degli autori, i quali, concentrando lo spazio dell’azione agli ambienti (ricostruiti in studio) in cui opera il team in avanscoperta, e lasciando fuori campo il grosso degli eserciti, dà vita a un falso kolossal, in cui la grandeur tipica di questi prodotti è risolta da qualche passaggio infarcito di effetti digitali, quel tanto che basta per dare l’idea – ma solo quella – delle possibilità militari messe a disposizione di Mac Arthur.
(pubblicata su taxidrivers.it)
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