Regia di Robert Altman vedi scheda film
“Non vado mai al cinema..” E perché no? “La vita è troppo breve”.
Realizzato nel 1992, The Player fu seguito da altri nove film prima della morte di Robert Altman nel 2006 dopo aver dato alla luce Radio America considerato il suo testamento morale. Eppure se si considera la biografia del regista e le sue peculiarità caratteriali, The Player rappresenta sia un punto d’arrivo e di riflessione sul cinema che mette a nudo non tanto l’intuibile mondo decadente dell’industria hollywoodiana, ma soprattutto l’intimo e personale rapporto di Altman con il suo percorso artistico. Griffin, un produttore esecutivo in crisi lavorativa, riceve cartoline anonime che lo minacciano di morte. Intrecciando vorticosamente storie di soggetti per un film che deve prendere forma e la sua vicenda personale, Griffin resterà ingabbiato nello stesso ambiente che vorrebbe ripudiare. La struttura del film è quella che il regista predilige, un mosaico senza fine e senza inizio di personaggi, di dialoghi e di micro storie, di musiche dissonanti che contribuiscono a dipingere uno scenario generale spietato e verosimile. The Player rincorre se stesso, la vita reale di Griffin diventa materia della possibile sceneggiatura che l’uomo vorrebbe trovare per rilanciarsi, ma tutto ciò che accade fa parte di quello in cui l’uomo non si riconosce. L’organizzazione testuale è eccellente, dietro le traversie di Griffin (un ottimo Tim Robbins) i diversi livelli di lettura di ciò che la vicenda mostra e di quello che se ne percepisce, offrono allo spettatore uno spettacolare sistema modulare non solo visivo, nel quale è possibile una continua revisione e rilettura di ciò che accade senza perdere il filo della storia. Se anche il tratto meta cinematografico è evidente, ciò che Altman non vuole trascurare è la storia, la sua fruibilità per gli spettatori (che non la razionalità cinica dei critici). Il regista non esprime giudizi sull’alter ego Griffin, costretto a convivere con la sua parte più debole o forse quella in cui intrinsecamente si riconosce nell’anima, la crisi del soggetto diventa protagonista sociale, con i suoi falsi miti, le sue paure, i suoi valori falsati. Il produttore rivale di Griffin rifiuta il lavoro di scrittura, il passo successivo sarà rivolto ad eliminare magari le sceneggiature, poi le regie chissà, (e non eravamo ancora nell’epoca attuale con la tecnologia così invasiva…) la modernità del nuovo pensiero, anzi di un nuovo corpo sociale non ha più bisogno di mediazione e di interpretazione che non sia la presa diretta della realtà, della strada. Come liberarsi allora dall’ossessione di tutto il cinema post classico in avanti imbrigliato nel compromesso tra finzione e realtà se non con le armi proprie del linguaggio cinematografico? Basta vedere la sequenza iniziale del film, un piano sequenza di almeno sei minuti che con un movimento avvolgente descrive un mondo ancora presente, quello del grande cinema corredato da creatività, capacità e cultura, un omaggio riuscito che ci riporta alla magniloquenza di Welles in L’infernale Quinlan, oppure in un'altra sequenza in cui Griffin telefona alla ragazza dello scrittore che crede sia l’autore delle minacce, e mentre le parla la osserva dall’esterno della casa ricreando uno stilema degno di Hitchcock. Che poi la storia non brilli di originalità e che la critica verso il finto paradiso Hollywoodiano possa quasi iscriversi come un genere a sé stante visto il considerevole numero di titoli che hanno trattato la materia, è un dato di fatto, ma la brillantezza, il ritmo e la modalità espressiva del film hanno contribuito ad un vero e proprio rilancio di Altman il cui lavoro si manifesterà come un’azione propedeutica per il capolavoro successivo, il “carveriano” America oggi (1993) che rielaborerà tutta la parte teorica sulla cultura da strada contenuta in The Player.
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