Regia di Glauber Rocha vedi scheda film
“O Cancer è un film che non aveva senso fare a colori o in 35 mm. Non è un film commerciale, non l’ho fatto per mandarlo nei circuiti, è un’opera nella quale mi sono divertito con i miei amici. (…) Lo feci, non mi costò nulla e il materiale sta qui, però non è montato, e non so quando lo riprenderò in mano per dargli una veste definitiva. L’ho fatto per dimostrare che nel cinema non c’è un’unica strada da seguire. Girai O Cancer qualche giorno prima di cominciare Antonio das Mortes perché le riprese erano state rinviate e saremmo rimasti un mese senza far nulla. Lavorai con due dei protagonisti di Antonio, Hugo Carvana e Odette Lara e con Antonio Pitanga, per poter utilizzare le soluzioni offerte dalla ripresa diretta. In quel tempo alcuni dicevano che ‘il cammino del cinema è il film a colori, di grande spettacolo’ e altri invece che ‘il cammino del cinema è il film in 16 mm., underground’. Io ho provato a percorrerli entrambi (a mio modo ovviamente), secondo quella che era e rimane la mia ‘idea di cinema’, ed è sto davvero stimolante farlo a distanza così ravvicinata: un film così semplice e diretto e totalmente anomalo girato appena pochi giorni prima di realizzare il mio primo film a colori, che forse rimane la mia sola concessione alla spettacolarità dell’assunto intesa in senso lato, anche se ho cercato di utilizzare il colore come elemento artistico di riconoscibilità, esattamente come ho sempre fatto con il bianco e nero”: così si esprimeva a suo tempo Rocha a proposito di questo suo piccolo, “speciale” contributo, realizzato in poco più di quattro giorni appunto in bianco e nero, in 16 mm e con una troupe ridotta all’osso, nel 1968 ma ultimato e montato solo nel 1972 per i film sperimentali della RAI (rimasto comunque praticamente invariato rispetto al girato originario salvo l’aggiunta del prologo) per poi essere mandato in onda nel 1974.
Questo film (che rimane un’esperienza a parte) è difficilmente assimilabile con quasi tutto il resto della sua non copiosissima filmografia[1](salvo forse la sua ultima pellicola, A idade da terra girata nel 1980): senza una vera e propria storia da narrare (qui fatta solo di brevi ed “episodici” tasselli), rivisto adesso ha soprattutto una sua validità intrinseca (e “documentale”) sotto il profilo della forma, della sua inusuale struttura narrativa. Interessante insomma per il lavoro anche sperimentale che Rocha ha fatto e sviluppato intorno al piano-sequenza (O Cancer si articola infatti in ventisette piani–sequenza[2] ciascuno di una durata che varia dagli 11 ai 12 minuti, all’interno dei quali i tre attori che lo interpretano, improvvisano situazioni – suggerite dal regista stesso – sul tema della violenza in tutte le sue forme: psicologica, sessuale, razziale, sociale) il film è innovativo e spiazzante anche per il particolare uso che fa di una colonna sonora (che a volte annulla persino i dialoghi) piena di suoni meccanici, del fruscio dei dischi che fungono da score musicale, dei bisbiglii della piccola troupe che lavora al di là dell’inquadratura, del rumore dei microfoni e che è attraversata da brusche “impennate” che fanno sì che l’audio aumenti o diminuisca a seconda dei momenti, creando un frequente dislivello sonoro che contribuisce a rendere ancor più straniante la visione.
Una specie di saggio insomma, che tende a voler dimostrare come nel cinema – e col cinema – si può fare praticamente tutto, anche negando totalmente quello che viene definito “lo sviluppo convezionale del racconto”. Se insomma si riesce a trovare un adeguato “stile” di rappresentazione delle cose, si può addirittura radicalizzate il concetto (come appunto accade con questa pellicola) fino a fargli assumere il senso di una vera e propria provocazione contro il sistema produttivo ufficiale: il cammino del cinema, sono tanti ‘cammini”, non solo quelli già percorsi, ma anche tutti quelli che è possibile immaginare, o che sembrano soltanto ipotesi teoriche – sono ancora parole del regista – e io polemicamente ho inteso proprio fare questo, nel senso che ho voluto rispondere così, in questo modo, alle problematiche imposte dai produttori che vorrebbero solo superproduzioni, per dimostrare loro che non esistono modalità codificate a cui doversi attenere e che si può operare ben più liberamente e con altrettanti ottimi risultati, al di fuori del sistema e dei suoi ‘preconcetti”, persino senza l’impiego di ingenti capitali ma solo con il prezioso bagaglio delle idee. La mia guerra è contro tutto questo conformismo, l’intolleranza, i preconcetti, la demagogia (che non riguardano solo il cinema, ma anche ciò che accade nel mondo del reale). Io ricerco e difendo la chiarezza nell’azione cinematografica e O Cancer mi ha aiutato a farla questa chiarezza, anche dentro di me. Per questo è e rimane un’operazione molto particolare (che prima o poi vedrà la luce, ma solo quando i tempi saranno quelli giusti e nei canali più appropriati di quelli delle sale o dei festival, convinto come sono che si tratti di una pellicola che risponde prima ai miei bisogni, piuttosto che a quelli della critica, o del solo pubblico di élite delle rassegne e dei circuiti d’essai).
La chiave interpretativa del film (che come ho già detto prima possiede ancora oggi una validità molto più specifica e ampia di quella attribuitagli dal regista stesso) è fornita con una chiarezza quasi didascalica, proprio nella scena aggiunta posta in apertura, in quella specie di “conferenza stampa” in cui la voce off che parla a nome dello stesso Rocha, illustra il particolare momento politico e sociale del Brasile che ha reso “necessaria” questa evidente e “violenta” (non nelle immagini, ma nel senso) provocazione e stigmatizza di conseguenza la profonda crisi di un paese in fortecrisi identitaria che vede quasi una inversione dei ruoli nella sempre più faticosa lotta attiva contro la dittatura, in cui singolarmente è la piccola borghesia radicale a scendere nelle strade per sostenere (più a parole che nei fatti) di “voler fare la rivoluzione” nella totale assenza delle classi meno abbienti, operai compresi, che invece disertano passivamente ogni manifestazione comprese quelle degli intellettuali che si riuniscono al Museo di Arte Moderna per discutere (a modo loro) sull’importanza dell’Arte rivoluzionaria.
Sollecitato nell’impresa dal cinema di Straub (e dalla sua Cronaca di Anna Maddalena Bach) ma tenendo singolarmente conto di ciò che aveva fatto – pur con differenti intenti ed altre direzioni di pensiero – anche Hitchcock (The Rope – Nodo alla gola) ecco dunque che qui Rocha intende mettersi a sua volta alla prova eliminando quasi del tutto l’artificio del montaggio, e cercando di conseguenza di costruire ugualmente la tensione necessaria puntando unicamente sui piani-sequenza, e dare così loro un nuovo senso, anche di linguaggio. Il suo particolare modo di lavorare in questa circostanza, sembra volersi avvicinare all’esperienza (di cinema politico) godardiana: questo è l’unico paragone “certo” che mi sento di fare, anche se poi all’atto pratico Rocha alla finemi sembra vada addirittura “oltre” non solo riguardo a Godard[3], ma anche rispetto al suo cinema (l’architettura che regola le sue precedenti opere è qui completamente disgregata, così come la narrazione mitico-metaforica che riproporrà subito dopo e di nuovo, con il contemporaneo Antonio das Mortes). Resta però invariata la sintesi delle tematiche che più gli sta(va)no a cuore, resa evidente attraverso l’utilizzo e l’impegno dei tre attori lasciati a briglia sciolta a discutere degli argomenti più disparati che si accavallano e si ripetono all’infinito per tutti gli 84 minuti di durata della pellicola (il velleitarismo rivoluzionario, i pregiudizi razziali, antifemministi e politici) in un iter “drammaturgico”, che ricorda semmai il disordinato accordare degli strumenti poco prima di una esecuzione musicale (Cinzia Bellumori) e fruga impietosamente nella spazzatura per condannare i consunti luoghi comuni del suo paese che attraversano trasversalmente tutte le classi sociali (la borghesia, le persone dell’ordine, gli stessi emarginati). Le tre figure attoriali che agiscono nel film, i personaggi che esse rappresentano (e senza eccezione alcuna), sembrano infatti voler ripetere l’eco sfuggente di discorsi usurati e dal significato ormai svuotato dal tempo (il giovane rivoluzionario che ripete continuamente i suoi slogan, ma intanto resta fermo, senza nulla fare di concreto, forse annoiato lui stesso del proprio ruolo; il personaggio dell’attrice impegnata a difendere i movimenti emancipativi della donna, che poi si lamenta – facendone quasi un proclama – di non aver potuto partecipare ad un coktail perché non aveva l’abito adatto; il negro che va in giro a chiedere lavoro a tutti e intanto rubacchia e sfoga un sentimentalismo esaltato con una giovane ragazza negra).
Ancora una volta insomma, Rocha con questa sua opera in apparenza “minimale” che sorprende per la sua forma fortemente straniante con cui sono strutturate le diverse sequenze (in alcune delle quali si vede – volutamente e a più riprese – l’asta del microfono, o addirittura in quella che riprende a tutto campo, la presenza casuale di un passante che si sofferma a guardare incuriosito le riprese che effettua il regista) grazie anche al particolare, invadente utilizzo della macchina da presa (vedi la scena in cui vaga tra i bambini e gli anziani del Morro di Mangueira, che finiscono poi per occupare tutto il campo visivo offerto allo spettatore) dimostra di possedere una capacità “speciale” (unica direi) che gli consente non solo di affrontare un problema tipico del Brasile di quegli anni (l’incapacità di uscire dai circoli viziosi della parola), ma anche di confrontarsi con un altro degli elementi centrali di quella cultura (la marginalizzazione nelle grandi metropoli che diventa spesso violenza fisica e verbale) regalandoci quest’opera praticamente unica nel suo genere (ma che ha influenzato molto di ciò che è venuto dopo) che qualcuno ha definito uno dei punti di partenza (e di arrivo) del post-moderno ludico ma arrabbiato (Leonardo Persia).
[1] Durante il suo soggiorno in Italia dopo aver lasciato il Brasile a causa del colpo di stato dei colonnelli, Rocha nel corso di un’intervista (correva l’anno 1974) classificò così le sue opere cinematografiche:
“I miei film possono essere raggruppati così:
1) film negri: “Barravento”, “Il Leone a sette teste”;
2) film contadini: “Il Dio Nero e il Diavolo Biondo” e “Antonio das Mortes”;
3) film storici: “Terra in trance”, “Cabezas Cortadas”, “Storia del Brasile” e i documentari “Amazonas” e “Maranhâo”;
4) film marginali: “O Patio”, “O Cancer”, “Cruz na Praça”, “Brasil ‘68”, “Marocco ‘72”(realizzato in super 8), “Montevideo ’72” (sempre in super 8), “Super-Paloma” (super 8) e “Paloma italiana” (ancora in super 8).
[2] “Si trattava di fare un’esperienza tecnica – scrisse a suo tempo il regista – (…) e di studiare la quasi totale eliminazione del montaggi,o giustificata in questo caso, dall’esistenza di una costante azione verbale e psicologica insita nella stessa ripresa, in come questa è stata realizzata. Perché, così come il teatro moderno sta portando il cinema ai popoli, il cinema deve portare in sé molto teatro. Questo è ovviamente il mio punto di vista: non pretendo che sia una teoria. E’ un’esperienza tutta personale che mi porta ad utilizzare deliberatamente il teatro nei miei film. – e qui sicuramente l’esplicito riferimento riguarda il teatro epico-didattico di Bertolt Brecht . Sarà per questo che non ho mai fatto una regia teatrale: già lo uso così tanto il teatro nelle mie pellicole, che mi basta. Mi rende soddisfatto”.
[3] La posizione del regista per quel che concerne il rapporto fra cinema e politica, si rileva meglio da queste sue dichiarazioni rilasciate nel corso di un’intervista che risale al 1969: “(…) Io credo che il cinema oggi abbia quale funzione fondamentale quella di riflettere in modi diversi e non normativi una realtà dove la problematica politica appare l’elemento prevalente. Tuttavia ciò non può che avvenire secondo schemi e modi assolutamente soggettivi e non può esservi un uso obbligato del linguaggio cinematografico. Anche perché, politica, nel senso proprio della parola, vuol dire azione, cioè momento in cui una classe combatte un’altra classe. Nell’azione non c’è dunque molto spazio per la soggettività. Ma quando si parla di ‘cinema politico’ si allude alla politica come scienza, cioè in realtà a qualcosa che non è ancora ‘politica’ (ovvero azione), ma la prepara. Qui il discorso è meno oggettivamente valutabile. In questo caso essere ‘politici’ vuol dire essere legati al modo in cui ciascuno di noi vive i propri rapporti di classe, li vede situati nel proprio contesto sociologico, li colloca nella propria storia, li valuta in base alla propria ipotesi di ‘azione politica’. (…) Io, come cineasta, posso utilizzare dunque la mia cinepresa ‘politicamente’ sia registrando direttamente la realtà, sia ricreandola attraverso la mia visione soggettiva. D’altronde, a ben pensarci, in ambedue i casi il momento della soggettività è sempre in qualche modo presente. Anche se ‘registro’ in diretta ciò non significa che io sia obbiettivo, poiché registrerò comunque con il cinema solo quella realtà che più direttamente mi interessa e a cui sono legato anche personalmente. Tutto è dunque mediato dalla mia personale visione delle cose (…) e questa rimane una grande responsabilità (non solo mia naturalmente, ma di tutti quelli che fanno un cinema ‘politico’ sia pure esposto in varie forme) poichè bisogna cercare sempre di evitare di offrire (e pretendere) schemi, ortodossie e linee normative obbligate e non liberamente suggerite dal proprio posizionamento di pensiero”.
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