Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Ci vuole fegato e sfrontatezza da parte della Hollywood odierna nel dare un seguito al leggendario Blade Runner di Ridley Scott (1982), ma nel pieno degli universi condivisi, franchising da ogni pellicola, sequel, remake e reboot, alla fine si riesumano sequel di vecchi capolavori a distanza di decenni. Non conosco il cinema di Denis Villeneuve, perchè non ho visionato nulla del regista in precedenza prima della suddetta opera, quindi non ho pregiudiziali di sorta, anche se sembra a giudicare dai pareri lusinghieri nei confronti dei suoi lavori precedenti da parte dei critici, che stavolta una major abbia voluto affidarsi, per tale rischiosissima follia, ad un regista si emergente, ma avente già una filmografia solida e riconosciuta alle spalle, invece del solito sbandato uscito dal solito Sundance festival con una pellicola pseudo-indipendente dalle buone critiche e poi messo subito al timone di blockbuster da 200 milioni totalmente differente dall'opera d'esordio, con il risultato di essere pilotato dallo studios e girare una pellicola mediocre, smarrendo così il suo(presunto) talento decantato nell'opera prima.
Blade Runner 2049 in effetti grazie alla mano di Villeneuve è riuscito a godere di un fato migliore rispetto a quello cui si credeva, il cineasta canadese non è succube della vampirizzazione dell'immaginario del passato che appesta molte operazioni del genere; l'inquadratura iniziale sull'occhio combacia con quella dello spettatore del quale il regista sovverte piacevolmente le aspettative, via la megalopoli verticalistica di Los Angeles della pellicola precedente e largo spazio alle panoramiche delle distese desolate presenti al di fuori della città, è una buona scelta che gli consente di non essere succube dell'ingombrante scenario creato dal capostipite, ma a lungo andare tale scelta rivela l'inconsistenza della fantasia di Villeneuve, che risulta molto derivativa da altre pellicole precedenti, quando invece nella pellicola del 1982 Ridley Scott aveva creato dal nulla la messa in scena cyberpunk, poi portata avanti con risultati più felici in animazione con gli esperimenti di Akira (1988) e con i due film di Ghost in The Shell (1995-2004), che hanno amplificato i semi della messa in scena piantati da Blade Runner e ne hanno sviscerato e portato avanti le tematiche sulla creazione artificiale da parte di un demiurgo-Dio, qui malamente messo in scena da un fastidioso quanto pedante Wallace (Jared Leto), erede solo nominale della missione di Tyrell, visto che i dialoghi e la simbologia religiosa di quest'ultimo risultavano per un certo verso "più semplice", ma anche meno urlati ed inseriti con più garbo nella narrazione, a differenza dei monologhi gridati a squarciagola con tanto di recitazione macchiettistica di un Jared Leto troppo impostato e ben poco credibile, quindi artificioso nel snocciolare i suoi deliri sulla creazione, così come il monolitico ed oramai eterno Harrison Ford che ritorna negli iconici quanto mai troppo amati panni di Deckart, con la sua solita espressione truce e scoglionata nei confronti del mondo, il carisma non gli manca di certo e la sua recitazione non è più in modalità marchetta come in Star Wars VII - Il Risveglio della Forza di J.J. Abrams (2015), ma la sensazione a fine film di attore che non ha più nulla da dire permane.
Nel mondo del 2049 in apparenza abbiamo un'espansione dei concetti e delle location del capostipite, ma al contempo queste aggiunte non portano a varcare nuovi ed inesplorati territori, anzi; i multicolori visivi al neon di una realtà alienante che rende liberatorio quell'unicorno continuamente sognato dal subconscio di Deckard, qui viene spazzato via dalla fotografia estetizzante di Roger Deakins, che divora una storia semplicistica e diluita troppo per le lunghe in rapporto a ciò che ha da dire (ha ragione Scott, una sforbiciata avrebbe giovato, l'originale era molto più essenziale), perchè persa nel protagonismo dell'egocentrico direttore della fotografia che magari setta i nuovi paramentri del bello nell'ambito della tavolozza cromatica del cinema digitale, ma distrugge la multiformità delle luci presenti nel creato a favore di un balalotto effetto "wow", che alla lunga appesantisce la vista dell'occhio umano, affogando i vari scenari in tinte unite le immagini che distruggono le sfumature del mondo, per far succedere una litania visiva dopo l'altra trasformando il mondo di Blade Runner 2049 in un netto manicheismo senza sfumature di contorno (Wallace e la sua assistente replicante Luv), da diventare così una vaga monotonia mortale, sempre in cerca dell'effetto arty fine a sè stesso, non per fare l'immagine stessa il motore della narrazione, ma per divorare ed annichilire il tutto che a poco a poco scompare sempre di più, rendendo meri esercizi registici il cambio di prospettiva dall'alto verso il basso, perchè oltre la coltre sfumata monocolore non c'è il nulla terrificante la cui conoscenza sovvertirebbe tutto ciò che credevamo di sapere sul concetto di reale, poichè il duo Villeneuve/Deakins con le loro imposizioni calate dall'altro nascondono l'estetizzazione del niente, che in quanto tale non può mai evolversi a cinema contemplativo.
Quel miracolo citato dal personaggio di Dave Bautista ad inzio film è stato un inganno trascinato per oltre due ore e quaranta ai danni dello spettatore, Ryan Gonsling nel profondo dell'inconscio se ne è accorto, quindi da fondo a tutta la propria abilità di attore, grazie ai suoi silenzi, piccoli movimenti degli occhio ed impercettibili smorfie del viso, per donare alla pellicola un miracolo tanto decantato quanto illusorio alla fine della pellicola, che grazie all'attore protagonista non diviene fumo negli occhi, perchè nei momenti d'intimità, quando il regista dismette i panni del fotografo per vestire quella di creatore d'immagini, avvengono dei piccoli segni che annunciano un qualcosa di oltre-umano; l'alienante solitudine dell'agente K (Ryan Gosling) ed il suo rapporto con l'intelligenza artificiale Joi (Ama de Armas), permette veramente al Blade Runner come alla pellicola di trascendere la propria natura derivativa di sequel a livello ideologico, per trovare la propria strada. L'agente K compie il suo percorso verso l'umanizzazione anche (e soprattutto) grazie alla componente sessuale, scintilla vitale dell'essere umano vergognosamente censurata dalla gran parte della produzione Hollywoodiana, per farsi veicolo di consapevolezza tramite un approccio curioso alla materia che magari sarà anche derivativo di Lei di Spike Jonze (2014) come concezione, ma la messa in scena intimista e qui giustificatamente lenta quanto rarefatta, lo immette nel suo futuro squallido, dove high-tech diventa un compagno ben più empatico e caloroso di tanti esseri viventi totalmente chiusi in sè stessi e desessualizzati nell'odierna società liquida, arrivando a concepire dei veri e propri sentimenti che finiscono in modo inquietante con il tradire la loro natura originaria di prodotto, ben più empatico nella sua illusorietà consapevole rispetto allo squallore della mediocre realtà.
Se quei momenti dedicati a K e Joi fossero stati il vero focus della pellicola, in confronto ai replicanti e gli esseri umani, il miracolo sarebbe stato completo, purtroppo non è stato così e nonostante le inspiegabili lodi eccessive verso tale film, il pubblico ha disertato le sale come nel 1982, dimostrandosi alieno da prodotti del genere per preferire la solita sbobba. In quanto a Villeneuve, la mano c'è e si intravede, se non fosse succube dell'estetizzazione forzata, potrebbe essere un eccellente regista, di sicuro il discreto risultato è da ascrivere anche a lui, perchè in mani altrui non so cosa ne sarebbe uscito, sperando in progetti migliori (il trailer del nuovo Dune non sembra promettere bene dal punto di vista della messa in scena, fantasia zero e l'attrice protagonista è una cagna totale), riprovaci ancora Villeneuve.
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