Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Ci sono due opere in uno stesso film: sequenza di scene che parlano da sole, tanto che si potrebbe vederlo anche muto; dialoghi scritti in stato di grazia, tanto che si potrebbe assistere ad occhi chiusi. Due parti complementari e magnificamente supplementari.
Paradiso per gli occhi
Immagini grandiose
Atmosfera affascinante
Sguardo d’autore su scenari indimenticabili
Quasi tutte le sequenze iniziano con inquadrature profonde e immaginifiche, di larghissima veduta panoramica, in un ambiente più cupo e scuro del primo film, la pioggia è diventata neve e se non c’è il bianco della neve è il color ocra che riempie gli occhi, sabbia che riempie la sala.
Ci sono due opere in uno stesso film: sequenza di scene che parlano da sole, tanto che si potrebbe vederlo anche muto; dialoghi scritti in stato di grazia, tanto che si potrebbe assistere ad occhi chiusi. Due parti complementari e magnificamente supplementari.
Non basta dire che Denis Villeneuve non sbaglia neanche stavolta. Lui scrive una pagina di cinema che rimarrà nella storia, dà una ulteriore dimostrazione del suo talento di narratore diverso dagli altri. È una storia che affascina e tiene lo spettatore per la gola per tutte le due ore e tre quarti, una lunghezza che non si può assolutamente accorciare, dal momento che nulla è tagliabile, ogni scena, ogni inquadratura, ogni dialogo è necessario, a completamento di ciò che si vede e si ascolta prima e dopo. E Denis si prende tutto il tempo necessario per raccontare, giustamente. E anche prima del prima, nel primo film insomma, tenendo presente che il regista franco-canadese mostra grande rispetto per il film del Scott (e come poteva altrimenti? Ridley era lì…), lo omaggia con diversi riferimenti, ma diventa una costola staccata, prende il volo e diventa una vera opera propria, con un’altra storia, altri personaggi ma soprattutto se ne stacca con uno sguardo del futuro totalmente diverso. D’altronde anche lo stesso Ridley Scott ha sempre considerato il suo film, a suo dire, un quadro incompleto, un quadro mai finito. E in effetti il quesito - siamo uomini o replicanti - è rimasto sospeso per trentacinque anni… Dunque questo è un altro film, come differente è l’ambientazione, pur sempre nella Los Angeles invivibile del primo film. E l’autore lo spiega pure: “Chi ricorda il primo film troverà questa visione delle terra diversa. Allora si accennava a un futuro potente e bello anche se da incubo. 2049 ci racconta che le cose non sono andate per il verso giusto, il clima si è evoluto in modo disastroso, l’umanità sopravvive in condizioni terribili: l’oceano si è alzato e la città quindi ha dovuto proteggersi con un muro-diga altissimo”. Per questo ci ritroviamo in un’atmosfera cupissima che cambia registro solo con il bianco della neve e il color-tufo che ci riempie gli occhi per lunghi momenti. O la nebbia impenetrabile della sequenza iniziale. La terra è peggiorata e gli abitanti, uomini o replicanti che siano, pure. Cattivissimi sono i personaggi che veniamo a conoscere: Niander Wallace (Jared Leto), l’incontentabile produttore di androidi di pelle, Luv (Sylvia Hoeks) il suo braccio destro, violenta e determinata fino alla peggiore malvagità (definita dal regista “una Audrey Hepburn sotto l'effetto di Lsd”), Sapper Morton (Dave Bautista) che vuole essere lasciato in pace ma che per difendere il suo spazio, il suo passato e i suoi segreti usa tutta la sua violenza che può uccidere anche con una sola mano. E così via.
Chi comanda sulla Terra in quei tempi sono sicuramente pochi privilegiati uomini, coadiuvati da androidi ubbidienti e soprattutto conformi alle leggi. Son pochi e Villeneuve ce ne mostra soltanto pochissimi: il suo sguardo volge su una larga fetta di bambini schiavi, oppure su replicanti poco riconoscibili in quanto del tutto simili alle persone reali e anche su “esseri” diversi che non hanno in sé l’”essere” in quanto semplici ologrammi che si accendono e si spengono come apparecchi elettronici, e che attraggono non poco i loro fruitori che a furia di conviverci li considerano persone vere. Il fenomeno anomalo è ciò che era successo a Rick Deckard e che risuccede a K, che si innamora corrisposto(?) di Joi, domestica e compagnia di casa (la giovane affascinante cubana Ana de Armas). In quei tempi il vero potere consiste e si attua soprattutto con la conoscenza, la memoria, quindi l’archiviazione del passato e quando le condizioni avverse hanno prodotto serie di dannosissimi blackout sul pianeta le conoscenze immagazzinate nei supporti informatici sono andate perdute. È per questo che Villeneuve afferma ancora: “Internet non è una bella cosa per noi sceneggiatori: sappiamo che non c’è nulla di più noioso che vedere un poliziotto alla scrivania che cerca indizi al computer e per questo abbiamo immaginato un massiccio impulso elettromagnetico che ha creato il blackout che ha portato alla distruzione di tutti i dati. E quindi la fine del mondo digitale e un ritorno alla realtà analogica. Questo ci fa riflettere sul nostro mondo, sul ruolo della memoria. Il film è un invito a riflettere sul fatto che il nostro mondo digitale è potente ma anche fragile. Il nostro protagonista deve mettere le mani nel fango, incontrare la gente, girare per strada piuttosto che sedersi alla scrivania. Ci troviamo in un periodo di transizione. La tecnologia in realtà se la possono permettere i ricchi, mentre il resto del mondo cerca di sfamarsi. Ma il rapporto odierno con la tecnologia mi ricorda quello delle scimmie che si specchiano. Significa che abbiamo perso il contatto con la natura. Dobbiamo trovare un modo per tornare indietro, distrarci con la tecnologia non fa del bene alla nostra mente, mi auguro che senza violenza sia possibile tornare a un rapporto più naturale con la tecnologia”.
Chi porta sulle spalle tutta la storia è quel visino naturalmente triste di Ryan Gosling, presente in scena per quasi tutta la durata, che si afferma attore eccellente e rivela una naturale predisposizione per opere di questo livello. Il resto è un contorno di interessanti personaggi e basta. Compreso il buon Rick Deckard /Harrison Ford (ormai imbolsito ma che picchia ancora duro) che compare solo nell’ultima parte. L’attore anglo-canadese – vero protagonista - riesce a comunicare sempre i suoi sentimenti con minimi cenni della testa e piccoli movimenti del viso, degli occhi, comunicando con elevata efficacia i suoi pensieri e le sue emozioni. Pur restando però imperscrutabile e quando agisce d’impeto coglie sempre di sorpresa noi spettatori ma soprattutto l’avversario di turno. Volendo può ricordare il miglior Clint Eastwood: silenzioso, di poche movenze, ma in fondo buono e di buoni sentimenti. Lui è lo sceriffo che deve mettere a posto le cose sbagliate, ben conscio di avere un compito improbo e proprio per questo rimarrà spiazzato per ben due volte, occasioni che per noi rappresenteranno la sorpresa e la controsorpresa. E durante lo svolgersi della trama la domanda che ci facevamo 35 anni fa ce la rifacciamo ancora oggi: K è uomo o replicante? E stavolta la risposta arriva con un coup de théâtre degno di uno spasmodico thriller.
Sequenze memorabili ce ne sono tante e forse la più emblematica e malinconica, piena di quel senso esistenziale tanto caro a Villeneuve, è quella in cui finalmente K rintraccia Deckard nel suo ultimo rifugio e in quel palazzone abbandonato, sabbioso, enorme, vuoto, il vecchio bounty killer cerca di difendere anche con la forza la sua solitudine tanto cercata e i suoi ricordi, affinché nessuno intacchi il suo passato e il suo amore spezzato tanti anni prima. Un rifugio insomma, dove il regista assembla, tra persone vere, replicanti, sculture e quadri di grandi artisti del tempo che fu, ologrammi di star del passato, il mondo di quel momento cristallizzato. E anche un pianoforte, più nuovo di quello incontrato nell’incipit, dove il “la” che non suonava nascondeva l’indizio principale che aveva aperto la strada alle indagini di K. È un po’ la rappresentazione dell’intera Terra, quel palazzo: ci sono ricordi, simboli emblematici del passato ed è anche luogo per l’incontro tanto agognato dal poliziotto, che finalmente incontra la persona che sta cercando da tempo. E sarà l’inizio dell’epilogo, che avverrà con un regolamento di conti senza esclusione di colpi.
Fuori ha raccolto un fiorellino: chissà come sarà arrivato lì, nella polvere quel misero fiorellino, unico segno di bellezza e di vita di un mondo che non esiste più. Magari è semplice speranza per un futuro che pare senza speranza?
Villeneuve ha pensato subito, leggendo la sceneggiatura, a Ryan Gosling e con quella scelta immediata ha iniziato il percorso virtuoso della realizzazione del film, perché l’attore canadese si rivela l’attore ideale: in ogni scena, in ogni sguardo viene in mente che solo lui poteva essere K. Dopo essere stato il pilota del Drive di Refn, lui ha portato la sua fisicità nel 2049, come un unicum, come una naturale prosecuzione inevitabile. Bravo, bravissimo. E bravi e ben guidati anche gli altri attori.
Le musiche di Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer si rivelano molto efficaci e coinvolgenti, rendendo anche omaggio a quelle indimenticabili di Vangelis con molti richiami, ma ciò che rimane nelle orecchie sono le prime cinque note del “Pierino e il lupo” di Prokofiev, che risuonano più e più volte dal device che accende e spegne Joi. Come una magia, come quella atmosfera magica che accompagna tutto il film.
Gran merito va dato anche alla fotografia che viaggia di pari passo con tutto il resto e con la perfetta regia: un valore aggiunto. Del direttore della fotografia Roger Deakins il regista ha affermato: “Il primo film dal punto di vista estetico ha lasciato il segno nella storia del cinema grazie all’uso di luce di Ridley Scott, la creazione di atmosfere cupe e fumose. Abbiamo mantenuto analogie con quel film, riprodotto quel quartiere di Los Angeles. Ma anche messo in campo una condizione climatica diversa, perché il clima è al centro della nostra evoluzione. Quindi freddo e neve e una ricerca visiva della luce. C’è più argento, e bianco per via della luce del Nord. È stata una sfida per il maestro Roger Deakins.”
In conclusione va detto che per me il film è stata un’esperienza visiva ed emotiva di grande respiro, un capolavoro (mai abusare di questo termine!) che lascia un lungo strascico nella mente, un evento. In verità in tanti aspettavano Denis Villeneuve al varco, temendo alcuni o sperando altri che l’operazione non riuscisse a ripetere i fasti del primo film che nel corso degli anni era diventato un cult per eccellenza. Per me la scommessa è vinta ampiamente dal regista e se potessi gli consiglierei di fermarsi, adesso. Cosa può fare di più nell’immediato? Che si riposi e si faccia desiderare, altrimenti rischia non solo di inflazionarsi (in quattro anni ha firmato 5 film di altissimo livello) ma anche ovviamente di scendere qualche gradino nella qualità. Può solo perderci.
Infine mi permetterò una domanda: questo film è più bello di quello di Ridley Scott? Potrà sembrare una bestemmia e in tanti si ribelleranno. Ma la domanda, se permettete, è legittima. Forse lo capiremo tra anni, quando ritroveremo per strada quel fiorellino bianco e quelle insperate arnie di api che aprono alla speranza.
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