Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
La perduta umanità.
Rieccoci qui, sul luogo della fuga, dell’omissione, dei molti finali (due, tre, sette ??) e del vissero “felici e contenti” comunemente accettato come finale cinematografico del capostipite AD 1982 (anche se alcuni dialoghi e svolte rimandano al “Final Cut” del 2007); la stasi temporale ha influito sull’attesa (non spasmodica) ma soprattutto sulla tecnica cinematografica.
I fondali e le strutture CGI segnano i tempi: artigianali e utili ad inquadrare l’oscurità di una città futuristica asfittica ad inizi 80’, imponenti ed “imperiose” nella loro maestosità in questo sequel; sovraccaricate e (forse) compiaciute, descrivono principalmente quadretti “immensi” di solitudine, in campo lungo o in aeree carrellate, dove il capostipite preferiva “stringere” sul vario formicaio umano che brulicava nell’immensa megalopoli.
Con coraggio, Villeneuve decide quindi di allargare il discorso: amplifica gli spazi, definisce il retroterra distopico (politico) dei rapporti uomini-replicanti e sfrutta la corrente lunga del dibattito (reale) sul connubio quasi inscindibile con la realtà virtuale; quest’ultima prettamente improntata all’intrattenimento, alla sostituzione del reale (considerato [anche inconsciamente] intollerabile) ed alla costruzione di relazioni perfette ed anodine. Argomento già trattato in lungo ed in largo in varie epoche, (“Io e Caterina”, “Her” etc) non originale, ma declinato con buoni spunti (la tremolante sequenza – invero un po’ lunga – del petting umano/virtuale) e discrete argomentazioni. Altro pezzo di bravura registica è senz’altro l’incontro/scontro K/Deckard, scontato negli esiti, ma che permette di mettere in mostra un cortocircuito visivo/cinematografico di grande impatto, in una Las Vegas post-apocalittica popolata di memorabilia e ologrammi di gloriosi “casinò singers”.
La trama, lineare con poche (fantasiose) varianti, rimane il punto debole (per chi scrive) del progetto; dalla scontata introduzione di K, eccessivamente poderosa come prescrive l’ABC action odierno, a tutte le svolte/contorsioni dei personaggi principali poco si esula da uno schema risaputo, perdipiù eccessivamente focalizzato sul disvelamento del “giallo” connesso alla ricerca/caccia dei replicanti ribelli. Con in più una vena didascalica che tutto spiega e tutto incasella, in una circolarità del plot che poco lascia alla fantasia dello spettatore (difficilmente, per questo sequel, nasceranno blog di discussione tipo questo: http://www.blade-runner.it/p-repl.html).
Gli interpreti tutti si fanno anch’essi abili fautori del mood della pellicola, algidi e iconici bellissimi replicanti, icasticamente rappresentati su sfondi interni da rivista di design, recitanti suggestivi dialoghi sufficientemente curati, senza comunque incidere particolarmente la memoria dello spettatore per prestazioni attoriali.
In definitiva, il regista canadese pare essersi reso conto delle difficoltà dell’impresa decidendo di esacerbare la (indubbiamente ottima) “prestazione” visiva, vero cavallo di battaglia della pellicola, relegando in un angolo il resto ed affidandosi ad un mero ampliamento dell’immaginario collettivo legato al mondo di Blade Runner, giocando relativamente sul sicuro ma, grazie al suo indubbio mestiere, superando ampiamente la sfida. Con efficacia, senza però entusiasmare.
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