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Blade Runner 2049

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su Blade Runner 2049

di ValeB
9 stelle

Gli androidi ricordano pecore elettriche?

 

Io oggi, qui, voglio liberare un certo tipo di fan di Blade Runner dal senso di colpa, voglio assolverli e alleggerire la loro coscienza: smettete di cospargervi il capo di cenere, non odiatevi, non inventate scuse, non ce n'è bisogno. Voglio dirlo una volta e per tutte che no, non è peccato apprezzare questo Blade Runner 2049 e no, nel farlo non si toglie nulla al primo.

Il capolavoro di Ridley Scott è nell'Olimpo dei film, c'è entrato di diritto e ci resterà sempre, niente e nessuno potranno cambiare questo. Mettetevi l'anima in pace.

 

locandina

Blade Runner 2049 (2017): locandina

 

Affrontato il proverbiale elefante nella stanza, possiamo passare finalmente a parlare di quest'ultima fatica di Denis Villeneuve, il regista canadese che negli ultimi anni ha fatto molto parlare di sé grazie a bei film dal notevole impatto visivo, come Sicario, Arrival (sottovalutato, a mio avviso) e un meno famoso ma davvero interessante Enemy, tratto da un romanzo di José Saramago.

C'è da ammettere che per un regista in ascesa l'operazione di girare il sequel di un film così amato suonava come un suicidio, ma c'è anche da dire che, se proprio c'era da girare questo seguito, provvidenziale è stata la scelta di Villeneuve al posto di Ridley Scott, che negli ultimi anni non ha (quasi) più nulla da dire e sembra aver decisamente perso il suo tocco magico.

Villeneuve sbarca nel mondo descritto da Philip K.Dick portandosi dietro lo stesso sceneggiatore del primo film, Hampton Fancher, e il bravissimo direttore della fotografia Roger Deakins, che aveva già lavorato in Sicario e nella maggior parte dei film dei fratelli Coen, guadagnando ben 13 nomination agli Oscar, ma che stavolta ha davvero superato sé stesso, mettendo d'accordo almeno su un punto sia i fan che i detrattori del film.

 

Ryan Gosling

Blade Runner 2049 (2017): Ryan Gosling

 

Blade Runner 2049 poggia sulle solide basi del primo film, con una storia che ne è diretta conseguenza e che più di una volta ricalca quella passata e indugia in emozionanti flashback: bella l'idea di riproporre spezzoni in formato audio, tanto lo spettatore ricorda così bene le scene da non aver bisogno d'altro. Ed è proprio il ricordo il tema su cui ruota la narrazione: i ricordi impiantati nei replicanti da dove vengono? Sono reali? E di chi sono?

Tanto è successo in questi 35 anni e sarebbe ridicolo non fare i conti con i mille cambiamenti, perciò nel riprendere le riflessioni alla base del primo film, questo le fa proprie, le amplia, le rilegge.

Il protagonista, implacabile Blade Runner, c'è, ma mentre noi è dal 1982 che ci chiediamo se Deckard sia o no un umano, qui la cosa viene chiarita nei primi 10 minuti: K è un replicante di ultima generazione e fa il Blade Runner, quindi un androide che uccide suoi simili, ma di modelli più vecchi. E anche l'amore impossibile c'è, ma in un mondo in cui i replicanti sono ormai diventati la normalità (anche se con molta diffidenza), l'amore impossibile diventa quello per Joi, un ologramma: impalpabile eppure capace di emozionarsi, empatizzare, amare e perfino temere la morte. E per gli androidi, già più umani degli umani, il sogno non è più prolungare la propria vita, ma crearne delle nuove. E quando il sogno della procreazione diventa realtà i replicanti scopriranno un altro lato dell'umanità: la fede (Sapper, il replicante che K uccide nelle prime scene, dice di aver visto un miracolo, mentre i ribelli che soccorrono il protagonista sembrano monaci che venerano un bimbo divino “vorremmo tutti essere lui, ecco perchè crediamo”).

Non manca il “cattivo” di turno, un Jared Leto con la cataratta che decisamente non può competere con il carisma di un giovane Rutger Hauer (sarebbe stato certamente diverso con David Bowie al suo posto, come era stato pensato in fase di scrittura, ma, ahinoi, il destino ha fatto la sua parte), e che infatti si limita a qualche comparsata, lasciando il vero ruolo di villain alla giovane Luv, una spietata e implacabile replicante.

Un film al femminile, questo, in cui le donne hanno i veri ruoli di forza (dal capo di K al capo dei ribelli, passando per Joi e Luv), perchè è la donna che dà vita e in un mondo cupo e sterile non c'è nulla di più potente. La diga, le stanze delle Wallace industries, la cripta dove K incontra i ribelli, le onde nere che divorano la navicella di Luv: c'è acqua ovunque in questo film, non solo in quella pioggia incessante che non poteva mancare (e che, alla fine, come per dare uno strappo col passato, diventa neve). Acqua che circonda, ricopre, avvolge: un liquido amniotico che nutre e dà vita, indifferentemente, a umani, androidi e ologrammi.

 

Ana de Armas, Ryan Gosling

Blade Runner 2049 (2017): Ana de Armas, Ryan Gosling

 

Blade Runner 2049 non omaggia solo il suo predecessore, ma alcuni dei più grandi film e autori di fantascienza, da Kubrick (evocativa la sequenza del test post-traumatico a cui K è sottoposto dopo ogni operazione, per verificare che il replicante non abbia sviluppato una coscienza propria) a Tarkovskij (la Las Vegas deserta e sabbiosa che ricorda la misteriosa landa desolata di Stalker, ma anche il ritrovamento del “padre” nel vecchio edificio, con tanto di cane, che richiama la scena finale di Solaris), passando anche per un piccolo grande capolavoro del piccolo schermo, la serie Battlestar Galactica, che, per una strana coincidenza, vanta Edward James Olmos tra i protagonisti. Olmos, il misterioso Gaff che nel primo film seminava in giro iconici origami, torna per un minuscolo ma toccante cameo, insieme a uno stanchissimo Harrison Ford, che ha un ruolo leggermente maggiore, anche se pare chiaro che il suo ritorno nei panni di Deckard sia più un passaggio di testimone con tanto di benedizione che un espediente utile alla narrazione. Chi davvero regge tutto il film è Ryan Gosling: il suo K è un replicante obbediente, ligio al dovere, perfettamente inquadrato, che all'improvviso si ritrova a sognare di avere un'anima e pian piano muta sotto i nostri occhi nelle quasi tre ore di film (forse troppe, ma forse no, la lentezza fa parte del suo essere attuale e retrò allo stesso tempo).

Perché forse basta desiderare di avere un'anima per averla. “Nascere significa avere un'anima” dice K, ma forse proprio perché l'hanno sempre avuta, molti umani l'hanno data per scontata, e dimenticata.

 

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