Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Scrivere una recensione su questo film dopo un'unica visione non è facile, specie se la visione è avvenuta, come nel mio caso, al cinema. Hampton Fancher, storico sceneggiatore del primo Blade Runner (1982), supportato da Michael Green, torna a lavorare sul soggetto più famoso che lo ha visto all'opera, per plasmare, a distanza di trentacinque anni, il sequel del capolavoro nato dal romanzo del maestro Philip K. Dick intitolato Ma gli Androidi sognano pecorelle elettroniche? (1968). Gli sceneggiatori avrebbero ben potuto vivacchiare di rendita, confezionare un prodotto commerciale funzionale a fare cassa, invece l'opera diretta dal canadese Denis Villeneuve (nomination all'oscar con La Donna che Canta e Arrival) è un sequel che ha poco da invidiare al primo episodio.
Le prime cose che saltano agli occhi, anche di un profano, sono le spettacolari, direi artistiche, scenografie del premio oscar Dennis Gassner (Bugsy) e la variegata e pittoresca fotografia (spettacolo puro le tonalità in arancione) di Roger Deakins che dopo tredici (e dico tredici!?) nomination all'oscar credo proprio che avrà l'ambita statuetta grazie a questo lavoro.
Gassner ricostruisce fedelmente la città iper tecnologica con i suoi infiniti ideogrammi e le macchine volanti portata in scena da Ridley Scott, ma ne crea anche altre due: le rovine della città vecchia che sembra esser stata spazzata via da un bombardamento nucleare e la città fantasma in cui si è rintanato il personaggio di Harrison Ford e che è costruita come un vero e proprio quadro surrealista, con tanto di sculture enormi dalle sembianze femminili che danno l'idea di esser state estrapolate da una creazione di Salvador Dalì.
Oltre al contorno visivo, Villeneuve si avvale di un'introspettiva sceneggiatura che pesca a piene mani dal segreto trascendente della vita, miscelando i concetti filosofici con l'azione e un'intelaiatura sociale iper corrotta nella sua etica e nei suoi valori di fondo (prostituzione dilagante, inquinamento atmosferico che assume sembianze di una nebbia vorace, scomparsa totale della natura come oggi noi la conosciamo con tanto di estinzione degli alberi). Gli androidi diventan così proiezione stessa dell'uomo, nutrono sentimenti umani, addirittura possono riprodursi (pur se questo sconvolgerebbe i piani). Interessante anche la sovrapposizione tra realtà virtuale e realtà effettiva, tangibile con le mani. Il protagonista, un freddissimo ma funzionale Ryan Gosling, evidente depersonificazione tanto che non è munito di un nome essendo chiamato Kappa (proprio come il protagonista de Il Processo di Franz Kafka), intrattiene una relazione amorosa con una ragazza virtuale (la cubana Ana de Amas, lanciata a Hollywood nel 2015 al fianco di Keanu Reeves, decisamente molto brava) che nutre, lei stessa, sentimenti e si materializza proprio come un ideogramma. Tristissima la scena in cui quest'ultima decide di avere un rapporto sessuale col proprio uomo, ingaggiando una prostituta su cui poi si sovrappone, grazie alla tecnologia, dando l'illusione all'altro di intrattenere un rapporto sessuale con lei tessa.
La chiarezza non esiste nel nuovo mondo di Blade Runner, non solo i ruoli si sovrappongono, ma i ricordi (base imprescindibile per la vita e gli stimoli) non sono mai certi, sono innesti artificiosi inseriti dai grandi architetti della nuova era. Bello il ruolo, pur se marginale, della svizzera Carla Juri (splendida interpretazione per i suoi cambi di espressione), a cui viene offerto il ruolo di Ana Stelline ovvero la creatrice dei sogni che poi però diventano realtà (si veda l'epilogo) quasi a ricoprire un ruolo da eletta, una sorta di nuovo avvento di stampo religioso. A tal proposito mi ha fatto venire in mente l'epilogo de I Tre Volti del Terrore con il figlio dell'effettista Sergio Stivaletti che, dal cielo, disegna le storie che poi si verificano sulla terra.
Innegabile la massiccia presenza di questti rimandi religiosi, con un Jared Leto che sembra una copia blasfema di Gesù Cristo e con deii replicanti ribelli che si riuniscono nell'underground a parlare di rivoluzione per la conquista dell'Eden. Non da sottovalutare poi il dialogo tra Kappa e il tenente Joshi (nome che apre certi portali lovecraftiani come ben sanno tutti i fan del Solitario di Providence), interpretato da una Robin Wright dalle forme e dai modi tedeschi, che parla di androidi come esseri privi di anima con Kappa che cercherà poi di manlevarsi dal suo ruolo di schiavo grazie alla sua condotta al servizio dei propri simili ("Non avete mai assistito a un miracolo voi di nuova concezione").
Massiva la presenza di riferimenti simbolici e metaforici a partire dall'albero iniziale, da cui prende le mosse la storia (evidente simbolo della vita che, sembran suggerire gli autori, vince sempre un po' come avvenuto in Jurassic Park), per proseguire con le api che si avvolgono sulle mani di Kappa e molte altre situazioni del genere che necessiterebbero di un'ulteriore visione.
Discrete le interpretazioni, si segnalano anche un ottimo Harrison Ford (impegnato pure in una lunga scazzottata) e un'atletica e marziale olandese, Sylvia Hoeks, a formare un cast multinazionale che ha funzionato bene e ha legato il proprio nome a un film che sopravviverà nel tempo, conquistando il rango di grande cult. Molti i personaggi accennati, altri quelli che sembran suggerire la voglia di esser sviluppati grazie a temi sfiorati quasi a voler ammiccare l'intenzione di dar vita a un sequel, l'epilogo del resto, che rimanda grazie all'uso delle musiche di Vangelis al primo episodio, è quanto mai aperto a nuovi sviluppi.
Mi attendo una lunga serie di nomination e diversi premi. Una piccola nota stonata, a mio avviso, la non troppo esaltante affluenza al cinema nel giorno della sua prima uscita (parlo di Livorno dove ho assistito al penultimo spettacolo della giornata di debutto). Andatelo a vedere al cinema, oltre a una sceneggiatura autoriale è un vero e proprio spettacolo visivo.
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