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Blade Runner 2049

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su Blade Runner 2049

di alan smithee
8 stelle

DENIS VILLENEUVE

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"A volte, se ami una persona, devi diventare un estraneo": e questo è diventato Rick Deckard, scomparso chissà dove da circa trent'anni.

Siamo a Los Angeles nel 2049: assembramenti tipo serre occupano ormai tutta la parte della superficie che non è invasa da costruzioni ed edifici spettrali, o da immense discariche a cielo aperto. Una coltre grigiastra rende impossibile la visione celeste, ed una pioggia incessante continua ad affliggere una pianeta in cui la vita sembra riguardare solo più gli esseri umani, ma non altri esseri viventi, piante od animali.

Veniamo informati che la caccia ai replicanti di prima generazione, costruiti anni prima per servire l'uomo come schiavi, ma venuti ad assumere parvenze umane quasi perfette, continua in modo accanito per eliminare ogni loro traccia e mettere a tacere, soffocandola nella barbarie, una problematica etica sfuggita da ogni controllo.

Costoro, perfetti tecnicamente ma quasi umani ed anelanti all'umana imperfezione e fragilità, sono sostituiti da macchine di seconda generazione, alcune delle quali, chiamate pure loro, come i predecessori, "blade runners", continuano imperterriti a dare la caccia ai pochi irriducibili sopravvissuti ribelli, che cercano strenuamente di rifarsi una vita, certi o illusi ormai di essere autentici esseri umani.

L'agente K, durante la cattura di uno di costoro, rimane colpito dall'immagine di un albero ormai morto, che conserva in prossimità delle sue radici, un codice che pare una data anagrafica, a lui in qualche modo piuttosto familiare. L'esperienza lo tocca a tal punto, da spingerlo a ripensare ad un ricordo di gioventù legato ad un giocattolo di legno a forma di cavallo, conteso da altri suoi coetanei, e per questo nascosto all'interno di un inceneritore spento. Ma il dubbio lancinante di K è il seguente: "Come riesco a capire se un ricordo è reale o invece si tratta di un innesto? In quanto replicante di nuova generazione, i suoi ricordi dovrebbero essere legati ad una infanzia fittizia ed immaginaria: ma qualcosa di più tangibile sembra ora appartenergli per davvero.

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Alla ricerca del suo predecessore scomparso, inseguito come un bandito, ma anche amato da una sua simile che trova il modo per poter manifestare il suo sentimento grazie ad una avvenente umana che le faccia da tramite (grande, stupefacente la scena d'amore con sovrapposizione di corpi delle donne), K, che poi rivendicherà il suo nome umano umano di Jo, vivrà alcuni intensi momenti in cui l'illusione di essere un vero essere umano, un figlio nato da un amore puro e disinteressato, lo renderanno partecipe di una emozione piuttosto effimera, ma in grado di fargli provare sentimenti fino a quel momento sconosciuti.

"Morire per una giusta causa è la cosa più umana che possiamo fare", gli rivela la donna (La interpreta La nota attrice palestinese Hiam Abbas) che conduce la lotta di resistenza e rivendicazione che i replicanti superstiti stanno portando avanti.

Inizia soppesando molto accuratamente i tempi e le dinamiche, questo agognato sequel del capolavoro di Ridley Scott (che qui interviene, ma defilato in veste di produttore), e lo stesso Ryan Goslin impiega almeno un terzo della durata del film per togliersi di dosso quell'espressione sonnecchiosa e mono-espressiva che quasi ci induceva a preeoccuparci dell'intero esito dell'operazione.

Che, invece, poco prima della metà del film, ingrana le giuste marce e spicca il volo, tra scenografie sempre più decadenti, e dunque suggestive, persino oniriche, scelte cromatiche a dir poco esaltanti nel descrivere un disagio climatico atmosferico che delinea i tratti di una imminente catastrofe ed un decadimento civile ormai incontenibile. Fino ad accompagnarci in un finale che, con l'entrata in scena di Deckard, vecchio e randagio (ma in realtà fisicamente in gran forma, nonostante la capigliatura da Geppetto) come il suo spettinato e fedele cane e compagno, diventa persino memorabile, emozionante, da giustificare una lacrima sul finale emotivamente significativo e di grande presa.

Le dinamiche dell'illusione, l'ansia di appartenere ad una specie indifesa e fragile, imperfetta, debole, eppure così ambita come la razza umana, si intersecano alla riflessione su cosa sia un ricordo, sull'importanza di questo come elemento che lega ad un passato che è una radice che fornisce linfa vitale per poter giustificare la necessità di sopravvivere ed andare avanti, nonostante tutto, nonostante il mondo faccia schifo, sia contaminato, irriducibilmente perduto, lercio e tossico.

Ecco allora che Villeneuve traduce in immagini e scene esemplari la necessita, fisiologica più ancora del nutrirsi, di concentrarsi sulla rielaborazione di un sentimento, di un ricordo, in grado di giustificare un'intera vita, vissuta e possibilmente da continuare a vivere.

La storia presenta moltissimi altri personaggi che intervengono a sfaccettare una vicenda che, ridotta invece alla estrema sintesi, è un perfetto e millimetrico sequel che riesce a non sfigurare affatto di fronte al suo capostipite-capolavoro, brillando invece per lucidità e capacità di estendere ed ampliare il discorso del primo episodio, senza mai uscire troppo dal seminato. E con frasi e proclami che, se non raggiungono la potenza e la definitivita' della frase cult del primo film ("Ho visto cose che voi umani...), senza dubbio colpiscono e restano nel cuore (tra le altre o le già citate, ricorderei pure la metafora de "Non puoi fermare la marea con una scopa").

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E se Goslin impiega davvero quasi oltre il tempo massimo per svegliarsi da un torpore catatonico quasi sospetto, onore e gloria invece allo stropicciato e tenerissimo pseudo "papà" Harrison Ford, che entra in scena oltre metà della prima parte del film (con una originale citazione culinario-letteraria da L'isola del tesoro), ma finisce per impossessarsi della pellicola col suo carisma rimasto immutato anche trentacinque anni dopo, sia nella vita reale che, più o meno, anche sulle scene apocalittiche di quel futuro da incubo climatico-esistenziale.

Ma il vero merito di una pellicola affascinante ed emozonante sino alla lacrima, invero rischiosissima, anche solo da concepire, tanto da aver indotto probabilmente lo stesso Scott ( un tipo tosto, che non si arrende tanto facilmente, e ha già affrontato sfide impossibli e sequels anche di opere non sue giudicate improrogabili) a limitarsi a rivestire i pannI del produttore -  va al coraggioso e talentuoso regista DENIS VILLENEUVE (cliccando sul nome potrete accedere alla playlist sull'intera sua filmografia aggiornata, fatta anzitempo per suggellare la mia ammirazione verso un cineasta che conosco in modo piuttosto completo). Un regista che abbiamo apprezzato ogni volta ed ammirato nelle sue sfaccettate e variegate sfide ed avventure di regia (a partire dagli esordi canadesi de Un 32 aout, al misterioso affascinante e quasi invisibile Maelstrom), e a cui personalmente non perdono solo la piatta banalità di situazioni e luoghi comuni a cui si riconduce il penultimo deludente Arrival.

Un film, questo B.R.2049, che pertanto suggella, sia pure a titolo puramente personale, una privata ma importante riconciliazione con il grande e versatile regista, che sa, in questo grandioso decadente contesto, sorprenderci con almeno 4/5 grandiose scene o sequenze che hanno tutte le carte in regola per passare di diritto nella storia del cinema e dell'arte in generale.

E Elvis in bianco, come da copione, che canta "dal vivo", interrotto da interferenze traditrici, "Can't Help Falling in Love" nel contesto di quel casinò popolato di fantasmi delle star del '900, ma abbandonato da decenni alla polvere e all'incuria, mi fa piangere d'emozione autentica, come ai tempi di Nicholas Cage-Sailor mentre mimava lo stesso artista, intonando Love Me Tender alla sua Lula in Wild at Heart.  

 

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