Regia di Anatole Litvak vedi scheda film
Un film devotamente freudiano, che si chiude sulle note di un capolavoro della musica mondiale. Nella storia di Virginia Stuart Cunningham la follia non è una tara che intacca indelebilmente la persona, ma è solo un momentaneo smarrimento causato da una combinazione di piccoli e grandi eventi traumatici. La causa scatenante della crisi è il senso di colpa: un peso che, di nascosto, opprime l’anima e che è aggravato proprio dall’innocenza di chi ne è vittima. I più indifesi sono i bambini, che non sono ancora in grado di individuare la reale origine dei dolori che li colpiscono; e così tendono ad attribuirla a se stessi, dato che sono abituati a vedersi al centro del mondo. Anche una volta raggiunta l’età adulta, Virginia continua ad essere la protagonista attiva, benché inconsapevole, della propria deriva mentale: e tale rimane anche rispetto al proprio percorso di cura e guarigione. L’obiettivo di Litvak non l’abbandona mai, facendone il perno di una storia che è, soprattutto, la descrizione di un viaggio fuori dal mondo, e dentro i segreti del proprio passato. La vicenda si svolge tutta dentro di lei, esprimendosi interamente nel conflitto che oppone la memoria e la coscienza, e la paura di ciò che è stato ai desideri per ciò che deve ancora venire. Il suo dramma è un romanzo che si sviluppa come un thriller: la sostanza del racconto è fatta di sentimenti ed emozioni, ma la sua struttura portante è una ricerca razionale finalizzata, come in un giallo, a sbrogliare una matassa. Ricostruire il processo logico e temporale che ha portato la protagonista a perdersi è come condurre un’indagine poliziesca, mirante a determinare i moventi e le dinamiche di un crimine: e, come tale, è un’operazione fondata su un’analisi strettamente focalizzata su quella particolare circostanza e sulle persone direttamente coinvolte. Lo sguardo non spazia sul panorama circostante, non pretende di contestualizzare, trasferire, generalizzare. È apprezzabile, nell’opera di Litvak, la rinuncia a qualunque tentativo di fare del caso di Virginia Cunningham il pretesto per un discorso sociale, per la rappresentazione di un ambiente, per la descrizione di un fenomeno. Il manicomio è il necessario contorno dell’azione, ma non partecipa più di tanto alla definizione di quest’ultima: c’è un rifiuto a considerare la follia come una categoria costituita ad universo, e delimitata da muri di cinta, cancelli e finestre sbarrate: una galassia che ti cattura, ti imprigiona e ti contagia, cancellando per sempre la tua identità e la tua libertà di agire e pensare. Nella visione di Litvak, la malattia mentale rimane un problema concreto del singolo individuo, e, in quanto tale, passibile di sviluppi in senso positivo o negativo: non è una diramazione dell’inferno, che circuisce il soggetto per non restituirlo più alla vita normale. La pazzia non esiste come entità a sé stante, né come condizione collettiva, né come unità territoriale: in questo film compare una folla di persone sofferenti – ciascuna a proprio modo - ma non si vede il “popolo dei matti”. La fossa dei serpenti è solo un’allucinazione, che si richiama ad un passato avvolto nella superstizione, in cui, davvero, la follia era considerata una patologia indifferenziata, trattabile in ognuno con gli stessi primitivi mezzi. L’unico tratto comune a tutti gli sfortunati personaggi di questo film è un bisogno fondamentale, che non è una necessità specifica della loro situazione, ma è uno struggente anelito del cuore, appartenente all’umanità intera: è quella nostalgia di casa che unisce, in ogni parte del globo, tutti coloro che si sono separati dai loro cari. E che fa della canzone Going Home (tratta dalla nona sinfonia di Antonín Dvo?ák) uno splendido inno all’amore che chiama da lontano, e che rende forti anche attraverso le distanze.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta