Regia di Michele Placido vedi scheda film
Un bel film, confezionato in modo impeccabile in sordina. Il suo merito è soprattutto questo: mostrare quanto è solo chi vuole essere onesto con coerenza, e quanto svantaggia se stesso, per gli aspetti economici e di potere. Quanto danni (qui il protagonista vive male in mezzo alle minacce, e alla fine viene ammazzato) deve patire chi sceglie di non essere connivente con i ricchi criminali. “L’onesta è la virtù di gente da poco”: questa citazione di Flaubert rende bene lo squallore, morale e dunque politico, tipicamente italiano, da boom economico. A citarlo nel film è la Laura Betti, perla femminile in un cast notevole, dove tutti recitano bene la propria parte: Placido, bravo anche nella asciutta regia, che lascia spazio ai fatti ed evita i fronzoli; il protagonista Bentivoglio, che dà corpo a un Ambrosoli vittima del suo stesso senso del dovere, che però è sacrosanto, giusto, l’unico che doveva avere se voleva essere in pace con se stesso; Omero Antonutti, nei panni di un inquieto e mefistofelico Sindona, mentre sette anni dopo, nel 2002, sarà protagonista del più didascalico (ma non meno importante, almeno quanto al soggetto!) “I banchieri di Dio” di Ferrara (questa volta nei panni di un altro protagonista, Calvi).
La resa di Sindona, uno dei personaggi più importanti, e volutamente più nascosti, della prima repubblica e della mafia (le due realtà sovente si sono fuse) e del suo ambiente è perfetta: un ambiente profondamente corrotto, di persone ricche non per caso, ma molto intelligenti, studiose, che perciò sono diventare ricche, nonostante la loro dedizione seriale al crimine finanziario (che è il crimine che fa più danni all’umanità, almeno da 40 anni, contrariamente alle studiate apparenze). Ma attenzione: bisognerebbe dire non “nonostante”, ma “proprio per” la loro dedizione seriale al crimine finanziario.
Placido qui ha il merito di far vedere anche quello che è stata la Dc, con l’indirizzo dato dal Vaticano, negli anni ’70: la nota macchina antisocialista, che ha favorito gli orrori del capitalismo (Marcinkus…). Andreotti fa la figura, pessima, che merita: protagonista di un governo italiano che faceva di tutto perché si insabbiassero le indagini sui crimini. Qui si tratta dei crimini del riciclaggio del denaro della mafia, denaro che è stato però indispensabile a finanziare molte cose (spesso illecite; e che comunque diventavano illecite anche solo per il modo con cui erano finanziate). Un classico all’italiana: certi ricchi delinquono; le vittime (lì quelli che avevano il conto corrente, ma in generale la società tutta) non hanno mezzi per difendersi: proprio perché contro di loro, e contro gli onesti in generale, lo stato ha messo in moto una macchina efficientissima, grazie alla quale impedisce gli strumenti del lavoro di ricerca della giustizia, strumenti che invece dovrebbe favorire in tutti i modi. Il modo migliore di impedire le indagini serie (da sempre usatissimo, non certo solo in Italia) è questo: impedire la carriera a chi fa le indagini serie, e promuovere solo chi non fa le indagini serie, ma chi promuove il falso che gli vien imposto dalle figure apicali.
Il film è veloce, si fa apprezzare soprattutto nella vita quotidiana di Ambrosoli, quella affettiva: memorabile è la scena del figlio che ha capito tutto, nonostante i suoi 4 anni, e che per questo non riesce più a dormire.
Tecnicamente non ci sono cadute, e non è nemmeno didascalico: un bel film di denuncia all’italiana, come se ne son fatti pochissimi dopo la gloriosa stagione degli anni ’70 e limitrofi. Quella stagione di cui qui peraltro compare un gran protagonista, Giuliano Montaldo, anche se non dietro alla macchina da presa: ci piace immaginarlo come un testimone spirituale.
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