Regia di Jean Vigo vedi scheda film
1. Premessa (divagazioni su Fuori Orario)
Tutti i veri amanti del cinema, i cinefili, sono diventati insonni o esperti di videoregistrazione alla fine degli anni ’80, con Fuori orario. Cose (mai) viste, il programma nato il 20 febbraio dell’88, formidabile contenitore anarchico di immagini che in ore notturne (dalle 23.30 fino all’alba del giorno dopo) trasmetteva film d’essai, introvabili, italiani e stranieri (molti in lingua originale), più o meno recenti, spesso vecchissimi.
E tutti hanno - abbiamo - accumulato VHS con ore infinite di registrazione; e tutti ancora sono - siamo - restìi a sbarazzarci di quelle inutili “cassette” e le lasciamo a ingombrare scaffali o cassetti, cantine o soffitte, oltre che gli spazi della nostra memoria.
Tra i fondatori e curatori del programma c’era il mitico Enrico Ghezzi (ideatore anche dell’impareggiabile Blob, altro programma storico del palinsesto Rai3) e fra i curatori, solo per citare i più noti, David Riondino, Tatti Sanguineti, Giulio Giorello, Michele Serra, Milo Manara (che spediva via fax le sue opere) e Guido Harariil, fotografo diventato famoso nel mondo della musica. Direttore di rete era Angelo Guglielmi, critico letterario (fondatore insieme a Eco e Sanguineti del Gruppo 63), funzionario Rai, capostruttura, direttore di Rai 3, rifondatore di Rai 3 (è lui, il leggendario Guglielmi, che ha ideato programmi cult come Telefono giallo, Samarcanda, Un giorno in pretura, La TV delle ragazze, Blob, Chi l'ha visto?, Mi manda Lubrano (divenuto poi Mi manda Raitre), Avanzi, Quelli che il calcio, Storie maledette, lanciando personaggi che hanno fatto la storia della televisione, come Corrado Augias, Michele Santoro, Donatella Raffai, Roberta Petrelluzzi, Serena Dandini, Fabio Fazio, Piero Chiambretti, Giuliano Ferrara, Daniele Luttazzi e Franca Leosini.
Ebbene, la famosa sigla di Fuori erario era composta proprio da una sequenza del film L’Atalante, mentre la colonna sonora era la struggente Because the Night di Patti Smith.
2. Il regista Jean Vigo.
Non si può parlare di questo film senza fare prima un accenno biografico del regista
Jean Vigo, parigino, nato nel 1905 e morto nel ’34, a ventinove anni, pochi mesi dopo aver terminato questo suo unico lungometraggio.
Vigo era figlio di un giornalista anarchico che si firmava con lo pseudonimo di Miguel Almereyda (anagramma di Y a la merde, va in merda) e che morì nel ’14 in galera, strangolato coi lacci delle scarpe, quando Jean aveva solo 9 anni.
Il piccolo Jean, dal punto di vista scolastico, era una frana: cambiava spesso scuola e concluse poco. Poi, a 21 anni finì in sanatorio per tubercolosi: lì conobbe una diciannovenne polacca e la sposò (anche lei morirà giovane, nel ’39, cinque anni dopo di Jean). Nel 31 nacque una figlia, chiamata Luce.
Jean Vogo, dal 1929 al ’34, che sono i cinque anni della sua attività di regista, realizzò solo quattro opere: due brevi documentari, un cortometraggio e un film.
Il primo documentario, del 1929, è À propos de Nice.
Il giovane ventiquattrenne lo gira con una cinepresa usata acquistata coi soldi del suocero polacco. È un film breve, di soli 25 minuti, e racconta la Nizza degli anni 1920. Cominciando dalle “cartoline” (lungomare, bagni di sole, promenade) e finendo nei quartieri popolari (mercato, carnevale, cimitero). Il documentario si ispira un po’ allo sperimentalismo sovietico, in particolare a Vertov, famoso per un documentario di oltre un’ora, L'uomo con la macchina da presa, del ’29, in cui il russo usa tutte le più inverosimili tecniche di ripresa che costituiranno poi la sintassi di tutte le produzioni successive.
Anche Vigo qui si diverte con inconsuete doppie esposizioni, elissi, riprese scandalosamente storte, primissimi piani spinti e quasi disturbanti, accelerazioni e rallentamenti, inquadrature accostate, fermo immagine, e perfino inserti stop motion. Operatore alla macchina, qui e in tutte le opere di Vigo, è il fratello di Vertov, Boris Kaufman.
Il secondo documentario, del 31, è Taris, roi de l’eau. (Taris, re dell’acqua).
Dura 11 minuti e racconta di un campione di nuoto di nome Taris.
È il primo documento filmico sonoro con riprese subacquee che mostra le prestazioni di un nuotatore, sulla pedana, al tuffo, mentre nuota nei diversi stili. L’importanza del piccolo filmato sta ancora nella sperimentalità: angoli di ripresa diversi, primi piani per descrivere la concentrazione o per spiegare dettagli dei movimenti delle braccia, delle gambe, del capo, panoramiche dall’alto, particolari degli schizzi luminosi dell’acqua, ralenti, acceleramenti e fermo-immagine, riprese sub (che vediamo anche in L’Atlante, di pochi anni dopo). L’operatore e direttore della fotografia in questo film è sempre Boris Kaufman, fratello e operatore del regista russo Vertov ricordato sopra; la produzione è di quattro soci che insieme hanno dato l’avvio alla Gaumont, la più importante major francese.
La terza opera di Vigo è Zero de conduit, Zero in condotta.
È un film breve di 41 minuti, gioiosamente anarchico. È del 1933 e racconta la terribile vita in un collegio negli anni ’30: il viaggio in treno, l’accoglienza, la camerata, le lezioni, la ricreazione, la disciplina, il vitto, le punizioni, le vessazione e i bullismi. Fa la cronaca della rivolta di quattro ragazzetti che pianificano una clamorosa protesta, quasi una fuga, spernacchiano gli educatori ottusi e depravati, li prendono a cuscinate e fuggono per i tetti. Inutile dire che il film è ispirato ai ricordi di scuola e alle infelici esperienze dell’autore, che omaggia lo spirito anarchico del padre e la felice propensione all’eversione dei bambini, elogia la ribellione e prelude al maggio parigino di 35 anni dopo.
3. L'Atalante
È la quarta ed ultima opera di Vigo, un vero e proprio film, realizzato nel 193, l’anno della morte. Il regista lo gira a fatica, quando già è limitato dalla tubercolosi, peggiorata anche dal maltempo - in febbraio - e dalle ambientazioni del film sui canali della Francia settentrionale.
La storia, molto semplice, quasi esigua, descrive i brevi inizi della convivenza di Juliette e Jean: Juliette (Dita Parlo) è una graziosa ragazza di campagna, cresciuta in un paesello in riva al mare; Jean (Jean Dasté) è il proprietario di una chiatta che naviga su uno degli innumerevoli canali navigabili che attraversano con il loro fitto reticolo tutta la Francia.
Il film comincia con le scene del matrimonio e del corteo (strampalato, quasi surreale).
Poi mostra l’imbarco degli sposi che sulla chiatta dove vanno a occupare una cabina predisposta. L’equipaggio della chiatta è costituito solo da altre due persone: il vecchio Père Jean (Michel Simon, attore molto famoso a quei tempi), un ex-marinaio reduce da mille viaggi transoceanici, e il mozzo, un ragazzetto che si arrabatta a fare un po’ di tutto.
La routinaria convivenza sul natante, dopo l’arrivo di Juliette, è un pochino compromessa: la presenza di una donna che vuole occuparsi del ménage del terzetto di maschi trasandati crea qualche attrito. Il vecchio Père Jean in particolare, burbero e misantropo, non digerisce l’intrusa che pare voglia assumere un suo ruolo femminile sul barcone, lui che ha trovato un suo equilibrio esistenziale attorniandosi di una colonia di gatti che abitano la sua cabina-stamberga e sono diventati padroni di tutti gli spazi della chiatta; non vuole che la nuova arrivata si impicci del trantran di bordo, che si occupi delle pulizie, che pretenda perfino di lavare la sua biancheria. Il dissidio però, in certi momenti, pare trasformarsi in simpatia quando Juliette, dai tatuaggi del vecchio e dai souvenir esotici che ingombrano la sua cabina, viene a sapere con un misto di stupore e invidia dei suoi viaggi e del suo misterioso passato.
Juliette, infatti, ha spirito esplorativo: cresciuta in un piccolo paesello affacciato sul mare, sogna avventure ed evasioni e forse ha ceduto alle avance di Jean attratta dal suo vagabondare per l’intero paese (i canali navigabili, in Francia, si estendono come un reticolo per centinaia di chilometri e mettono in comunicazione tutta la nazione); ora coltiva un piccolo sogno di fuga modesto, ridimensionato in un desiderio: vuole vedere Parigi, la Ville Lumiere.
Quando l'Atalante arriva nei pressi della capitale, Juliette si fa portare “fuori” da Jean in un locale dove si balla: e lì si lascia incantare con una certa leggerezza da un bizzarro artista di strada, che viene malmenato dal gelosissimo Jean. Frivolezze contro ossessioni.
La stessa sera Jean, torna rabbuiato sulla chiatta e ordina di mollare gli ormeggi e allontana la barca da Parigi. Ma Juliette lascia l'imbarcazione e prende il treno per la città. Quando il marito scopre la fuga, ordina indispettito la partenza, lasciando a terra Juliette.
La ragazza abbandonata vaga per la città (e Parigi, qui e in altre scene si rivela metropoli crudele, per niente fascinosa) ed è costretta a trovare un alloggio per la notte.
Strepitosa la sequenza in cui i due amanti, nei loro letti a chilometri di distanza (lui nella sua cuccetta sotto coperta che si strugge di gelosia mentre la chiatta nella notte scivola sull’acqua; lei in una stanzetta di uno squallido albergo parigino) si agitano fra le lenzuola, si pensano, si desiderano, sognano carezze e congiunzioni in un alternarsi struggente di sequenze incrociate indimenticabili, illuminati da tagli di luce che sembra lunare.
Espulsa la donna, il trio di maschi si ricompone: si riprende la navigazione, ma le cose non stanno più come prima: il capitano è inquieto e non è più in grado di governare la situazione. L’armatore minaccia di licenziare tutti.
In piena crisi Jean - scena memorabile - si tuffa in acqua: Juliette gli aveva detto, alcuni giorni prima, che con la testa immersa nell’acqua si può vedere la persona che si ama. E infatti Jean, nuotando sott’acqua (acqua non tanto limpida, per la verità), ha la visione della sua Juliette che danza inafferrabile e radiosa con l’abito da sposa che fluttua nella corrente. (Questa è la sequenza usata nella sigla di Fuori Orario)
Il vecchio Jules, preoccupato per gli equilibri compromessi, decide di entrare in Parigi in cerca di Juliette. La trova in un negozio di musica mentre ascolta vecchie canzoni marinare, se la carica sulle spalle come fosse un rapimento e la riporta a bordo della chiatta, piccolo paradiso terrestre, hortus conclusus dentro il quale si può coltivare e proteggere la ritrovata felicità..
Baci, abbracci. La chiatta riprende la sua navigazione sotto i cieli di Francia.
4. La storia di una pellicola
L’Atalante è considerato universalmente un capolavoro.
La pellicola però agli inizi subisce strane vicissitudini: Vigo, gravemente ammalato, finisce faticosamente di girare nel gennaio del ’34 e a febbraio affida il montaggio a un suo collaboratore. La Dupont impone modifiche pesanti, tagli (oltre 20’) e una nuova colonna sonora. Viene cambiato perfino il titolo, ripreso proprio dalla nuova colonna sonora Le chaland qui passe (La chiatta che passa, versione francese della canzone italiana Parlami d'amore Mariù di Bixio, in voga all'epoca). Le prime visioni sono un fiasco. I produttori della Dupont modificano di nuovo il montaggio e ritentano il lancio. A settembre la nuova versione passa inosservata e il film scompare dalla circolazione. Il 5 ottobre Vigo muore.
A fine ottobre esce una nuova versione più fedele alle intenzioni di Vigo, ma poi il film viene dimenticato.
Solo dopo una ventina d’anni, nel 1947, finita la guerra, viene riscoperto dai critici americani e poi riproposto in Francia dai saggisti della rivista Cahiers du Cinéma (a partire dal ’51): André Bazin, Robert Bresson, Jean Cocteau, Éric Rohmer, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol e François Truffaut, tutti futuri registi della Nouvelle vague
Da allora, l’opera di Vigo è unanimemente celebrata, imitata, studiata, citata.
Sadoul era entusiasta del film; Truffaut lo adorava; Comencini aveva una copia personale del film e lo mostrava in tutte le occasioni; Custurica, Bertolucci e Godard lo citano in alcune scene di loro film; Luis Buñuel afferma che in Vigo c’è tutto.
5. La qualità di un capolavoro
Uno dei meriti di Vigo, oltre a quello di aver fondato e sperimentato una sintassi filmica, è quello di aver utilizzato una trama esilissima per creare atmosfere quasi magiche, per raccontare con efficacia la leggerezza delle sensazioni, l’intensità delle emozioni, la forza dei desideri, la nostalgia della felicità.
In questo film sono perfettamente coniugati e fusi due stili espressivi apparentemente inconciliabili che sono il realismo (la storia concreta) e l’estetismo (lo spirito), la trama e il senso, l’intreccio e l’atmosfera, la cronaca biografica e il fluire dell’esistenza, la concretezza della quotidianità e la potenza felice dell’incoscienza, la fisionomia e l’anima, lo sguardo e la veggenza, le dinamiche relazionali e la seduzione, Rossellini e ?jzenštejn.
Un conto è vedere le cose, inquadrare la realtà, raccontare i fatti; altra cosa è sognare, amplificare il senso di quel che accade, leggerne le pieghe emotive, filtrarne gli incanti e le magie, scorgere la straordinarietà delle piccole cose, la meraviglia, l’estasi.
Un conto è vivere coi piedi per terra, lasciandosi intridere dalla infelicità di cui è gravida;
altra cosa è lasciarsi cullare sull’acqua che concilia i sogni.
E altro ancora è immergersi “dentro” l’acqua, ad occhi aperti, per vedere i sogni che si realizzano (forse un po’ come al cinema).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta