Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Fellini pare voler firmare il suo commiato, sofferto e un po' polemico, dalle donne del suo cinema, da quella femminilità intensamente seduttrice e potentemente materna che l'ondata femminista ha improvvisamente spazzato via. L'immagine di un tempo sopravvive solo nei suoi sogni dell'infanzia, in cui il regista, ancora una volta, mostra di volersi mollemente cullare. Quella scomparsa è la donna fatta per l'uomo, che a lui si concedeva per amore e per piacere, e che ora invece gli si rivolta contro. La donna felliniana è – e rimane - forte e dominatrice, ma l'energia che prima dispensava con raffinata parsimonia e sottile malia, esplode ora, invece, in un rabbioso impeto. Il suo scopo è vendicarsi del maschio appropriandosi delle sue stesse armi e della sua stessa (forse solo presunta) propensione alla violenza. L'uomo esautorato è un uomo che si scopre psicologicamente castrato; e non da quando la donna gli si nega, ma da sempre. Infatti lei, che ha continuamente acceso le sue fantasie, ha mantenuto saldamente in pugno i suoi istinti, e si è fatta desiderare tutta una vita, senza mai, veramente, diventare sua. "La città della donne" è l'allegoria della "fine" di un mito virile che, però, non può dirsi decaduto, per il semplice fatto che, in nessuna epoca, ha avuto una controparte credibile nella realtà.
Fellini ci consegna, apparentemente, una copia smorta del suo stile, con quei personaggi del varietà senza più smalto né lustrini, sorpresi a navigare in un palcoscenico ormai grigio e vuoto. Questo film è fatto dei cenci della disillusione, delle foto della nostalgia strappate; è come un cassetto delle cianfrusaglie, un ricettacolo di oggetti vecchi, che non funzionano più bene, eppure sono cose a cui si è affezionati. Questo è il motivo per cui il grottesco qui non diverte, e non fa più sognare, bensì si attacca allo stomaco, mentre, a suo modo, aggredisce il cuore.
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