Regia di Franco Zeffirelli vedi scheda film
L’esterofilia zeffirelliana trova una sua ragione di esistere proprio oltreoceano, dove il calligrafismo lirico del Franco viene osannato come l’inevitabile prodotto dello stereotipo italiano (quindi anche il bel canto, quindi anche lo zeffirellismo) in salsa melodrammatica post-moderna. Gli ingredienti sono sempre i soliti, e il filmone americano del regista (che, senza ombra di dubbio, dà il meglio nel tempio teatrale) non è altro che l’ennesimo kolossal dei sentimenti lacrimogeni. Non fa piangere, non riesce nel ricatto che pone, fondamentalmente perché è tutto così calcolato, studiato a tavolino, calibrato furbescamente che solo allo spettatore mediocre (quello a cui piace la debordante maestosità della messinscena di Zeffirelli) può procurare fiumi di lacrime. La morte dell’eroe (spesso denominato solo The Champ, come i personaggi senza nome di Clint Eastwood) ha un qualcosa di talmente ruffiano da risultare persino irritante. La fattura e la confezione, talora, salva la modestia del tutto (merito del comunque svogliato Jack Warden e di qualche assolo del piccolo Rick Schroder), ma la barca affonda nel mare di lacrime che lo stesso film genera.
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