Regia di James Mangold vedi scheda film
Difficile dire se “Logan” sia il film più bello tra quelli che la Marvel ha tratto dall’omonima collane di fumetti. Di certo possiamo dire che il terzo spin off degli X-Men dedicato all’eroe più tormentato e solitario del pianeta è di quelli destinati a lasciare il segno. A farcelo dire sono fattori che riguardano tanto la scelta dei contenuti che il modo di metterli in scena. Più che in precedenti avventure dell’universo Marvel i segni dominanti sono in questo caso un senso di realtà e una cognizione del dolore espressi come mai ci era capitato di vedere in queste latitudini. A giustificarli lo stato di prostrazione in cui versa l’esistenza dei personaggi, non solo quello di Logan, malandato e con il fattore rigenerante funzionante solo a metà ma anche del professor Xavier, vecchio e psichicamente instabile, e poi il fatto che la maggior parte dei mutanti – quindi anche quelli che abbiamo conosciuto nella saga cinematografica a essi dedicata – sono stati inavvertitamente uccisi dal loro stesso mentore. Ma non basta perché il film, interiorizzando lo stato d’animo del protagonista attraverso la scelta di un ambientazione spoglia e selvaggia e di una fotografia giocata sul contrasto tra eccessi e sottrazione di colore sembra continuamente combattuto tra un desiderio di cupio dissolvi, coincidente con la decisione di Logan e del professor Xavier di vivere segregati in una terra di nessuno e un’improvvisa voglia di fare (e di uccidere) che coincide con la decisione del protagonista di aiutare la piccola Laura a sfuggire dalla grinfie di un gruppo di assassini mercenari.
Ciò che ne viene fuori è un film anomalo e dolente, quasi rassegnato nella consapevolezza di non poter fare breccia su quella fetta di appassionati che da un blockbuster pretende spettacoli tecnologici e sfarzosi. Non che “Logan” sia esente da tutto questo perché tra fughe, imboscate e rese dei conti anche Mangold conosce il modo per guadagnarsi la patente di regista di techno movie. Ma qui ancora una volta e forse ancora per poco visto i tempi che corrono, è il fattore umano a farla da padrona soprattutto nell’interpretazione immersi di Hugh Jackman che regala al suo personaggio abissi di drammaticità shakesperiana oltre a una fisicità da “ultima stazione”. Una performance da premio Oscar o da Palma d’oro se a impedirlo non ci fosse il pregiudizio delle parti in causa da sempre restii a premiare film pur belli come a tutti gli effetti è il “Logan” di Mangold e Jackman.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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