Regia di Nikolaj Arcel vedi scheda film
Guazzabuglio western-futurista che condensa, senza criterio né coerenza narrativa, una serie complessa frutto di una ossessione narrativa del grande King lunga oltre un quarantennio. Con King, salvo rare eccezioni illustri, romanzo e trasposizione cinematografica continuano a non trovare una dignitosa compatibilità.
Ridurre otto corposi romanzi di ispirazione tolkeniana scritti da Stephen King nell’arco di un quarantennio, tra un best sellers e l’altro della sua nutrita schiera di opere letterarie sempre in bilico tra horror e fantasy, a soli 95 minuti stringati di pellicola, richiede senza dubbio una capacità di sintesi che non ha precedenti, o una sfrontatezza senza limiti. Ma a fine film ci troviamo così spiazzati da venirci quasi istintivo il sentimento di ringraziare la produzione di questa incauta e pressapochista concisione.
Sta di fatto che questo fantasy-western, soprattutto agli occhi di chi come me ha letto ed apprezzato almeno una decina di opere del grande scrittore, ma non ha mai potuto (anche per questioni di organizzazione e di tempo) fruire di alcuno dei corposi otto romanzi della infinita serie, si trova spiazzato dinanzi ad una faraonica ambientazione su un mondo parallelo in cui un dinamico e scontroso pistolero di nome Roland Deschain si danna l’anima per scovare il suo acerrimo nemico, un maligno ed azzimato “uomo in nero”, intenzionato ad utilizzare tutti i suoi temibili poteri per distruggere la fatidica torre del titolo, struttura dalla quale, non si sa né capisce bene perché, dipendono i destini di dei mondi paralleli che ad essa sono collegati, e che impedisce che le forze del male si impadroniscano di molti mondi e dimensioni, tra cui il nostro pianeta.
Tra di loro un bimbetto sensitivo in gamba che trascinerà il cow boy fino alla New York di oggi, dando vita a qualche gag carina ma non molto dissimile allo Star Trek di Rotta sulla Terra.
E se il personaggio western vestito con opportuno physique du role da un Idris Elba comicamente imbronciato come il Bambino di Bud Spencer nel dittico di Trinità, si presta a qualche battuta facile ma almeno divertente (quella degli hot dog su tutte), il personaggio del cattivo reso dall’untissimo Matthew McCounaghey, appare talmente malscritto da riuscire a mettere vistosamente in imbarazzo lo stesso attore che, inadeguato e confuso neanche molto per colpa sua, si dimena con una mimica facciale e corporale sconcertante che ce lo riporta in zona “cane-d’attore”, dopo almeno dieci anni di gloria e ruoli perfettamente azzeccati.
La responsabilità di questo clamoroso fallimento, spiace ammetterlo, è da addossare quasi tutta al regista danese (un tempo bravo con il suo Royal Affair), Nicolaj Arcel, qui impegnato (sciaguratamente) anche come sceneggiatore, insieme ad altri tre incauti e poco ispirati scribacchini.
La vicenda, senza un inizio compiuto e con una fine posticcia e facilona, si trascina in un dispiego di effetti e di sparatorie ripetitive e senza costrutto, e quando si impegna a tentare di cementare frasi che restino alla memoria, ne escono deliri qui immotivati, o almeno non sufficientemente contestualizzati, che si manifestano con soliloqui solenni di questo tipo:
“Io non sparo con la mano. Colui che spara con la mano ha dimenticato il volto di suo padre.
Colui che uccide con una pistola, ha dimenticato il volto di suo padre: io uccido col cuore”.
E’ proprio vero che, a volte, il silenzio è d’oro.
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