Regia di Marco Ferreri vedi scheda film
Per la prima e (credo) unica volta alle prese con un soggetto letterario, Ferreri dimostra la sua statura autoriale, rimanendo fedele alla sua poetica, nonostante i condizionamenti di un copione scritto a sei mani con Piera Degli Esposti e Dacia Maraini. L'ottica innovativa con cui il cineasta milanese inquadra i temi della donna, della famiglia, delle relazioni sentimentali e sessuali, oltre che dell'eclisse apparente del maschio (che in realtà resta inconsapevolmente padrone del destino delle "sue" femmine, moglie e figlia), è la stessa che caratterizza gran parte dei suoi film della seconda parte di carriera (da "L'Ultima Donna", 1976, in poi). Questo film non è certo fra i migliori di questa sua lunga coda ispirativa (gli sono preferibili almeno "Ciao Maschio", "I Love You", "Diario Di Un Vizio"), ma non tanto per un calo o una crisi di idee, quanto per una mera questione di "fiato corto". "Storia di Piera" è come la performance calcistica di un fuoriclasse appena rientrato da un lungo infortunio, che gioca il primo tempo in modo brillante, segnando anche un gol, per poi essere prevedibilmente sostituito nella ripresa. Fino a metà film, con Piera ragazzina, Ferreri delinea mirabilmente i caratteri dei personaggi, in particolare i conflitti fra le due donne, riserba le sue proverbiali "inquadrature celibi" per decantare poeticamente la libertà, la spregiudicatezza, ma anche l'ansia e la frustrazione con cui una pre-adolescente e una donna adulta vivono la loro sfera sessuale, inventando almeno un'immagine memorabile: l'abbraccio a tre fra il bagnante, Piera e la madre, sintesi inconfondibilmente ferreriana di sfrontatezza, disperazione, piacere, tenerezza e dolore, tutta la forza di un'utopia relazionale conchiusa in 3 corpi intrecciati. Poi però, quando Piera diventa adulta ed entra in scena Isabelle Huppert (acerba, ma capace di tenere testa a gente come Mastroianni e Hanna Schygulla), il film diventa ripetitivo, i personaggi invecchiano ma non si evolvono e conseguentemente anche le trovate registiche ristagnano: e qui la fonte letteraria prende il sopravvento e Ferreri non riesce a trasformare il romanzo in apologo, la drammaturgia in astrazione. Resta però quella prima parte, quelle inquadrature così pregne di libertà, quella capacità unica di cogliere le sfumature del pensiero femminile.
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