Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film
Giuseppe Tornatore esordisce e fa il botto. Certo, la storia che ha scelto per presentarsi al pubblico era conosciuta, ma avrebbe fatto tremare i polsi anche al grande Francesco Rosi. Anche perché il personaggio in ballo è di caratura epica, e il rischio di rimanervi affascinati era alto. D’altronde le gesta di questo piccolo detenuto divenuto potentissimo boss della nuova camorra riformata hanno un che di mitico nella loro cruda brutalità. I riferimenti ai quali si sono ispirati Tornatore e Massimo De Rita sono evidentemente riconducibili alla tradizione dei gangster movie americani, certo “Il padrino”, ma soprattutto “C’era una volta in America”. E ad oggi (a distanza di ventidue anni dall’opera prima) si può dire che chi ha tratto maggiori vantaggi e ha sfruttato al meglio la lezione di Sergio Leone è proprio Peppuccio. Come Leone ha il gusto dell’abbondanza, è eccessivo quanto basta, ha la felicità del racconto. “Il camorrista”, in fondo, nel suo mischiare ingredienti atipici, è un grande racconto popolare. Con i toni di una mesta ed angosciosa sceneggiata napoletana, è uno scatenato racconto condito di violenza e passione, politica e malaffare, follia e sangue. Ispirato palesemente alla vita e alla carriera di Raffaele Cutolo e tratto da un libro di Giuseppe Marrazzo, è un film molto lungo – la versione cinematografica dura due ore e quarantaquattro, quella televisiva addirittura cinque ore – ma di notevole equilibrio narrativo, contraddistinto da una fluida scorrevolezza dovuta al linguaggio diretto e all’essenziale messinscena. È un po’ una presentazione autoriale per Tornatore, si ritrovano quasi tutte le cifre caratteristiche del successivo percorso cinematografico. Tanto per citarne una, c’è già un personaggio che Peppuccio ci fa credere morto e in realtà poi scopriamo vivo e vegeto (accadrà anche con Alfredo nel suo capolavoro “Nuovo cinema Paradiso” e con la tata Gina ne “La sconosciuta”, pellicola molto più vicina ai territori d’ombra de “Il camorrista”) – stavolta è il turno del commissario Iervolino, acerrimo nemico del protagonista. Rafforzato dalle robuste musiche di Nicola Piovani, fotografato con intelligenza da Blasco Giurato, il film appartiene molto a Ben Gazzara, che ritrae il suo professore vesuviano con luciferina potenza (ma merito anche all’ottimo Mariano Rigillo, che lo doppia). La sua acuta e strepitosa interpretazione impressione per subdola misura ed allo stesso per esaltata veemenza, straripa nell’istrionismo che gli è congeniale e stupisce, specie nel finale, nella sua crepuscolare discesa nella schizofrenia. E pensare che si era fatto ricoverare in un manicomio criminale spacciandosi per matto. “Se facevo la carriera di prete, sarei stato subito papa” ammette con compiacenza. Perché il punto è questo: il Sud, vero protagonista del film, non ancora si rende conto perfettamente di quanto faccia male la malavita organizzata. E anche oggi i temi affrontati ne “Il camorrista” (i legami con la politica, gli appalti, la speculazione edilizia, i regolamenti di conti, le mattanze tra clan…) fanno ancora paura. Rivedendolo oggi, si trovano anche analogie stilistiche con "Romanzo criminale".
Robusta e serrata, di Nicola Piovani.
Voto: 8.
Piccolo ruolo nel prologo.
Molto bravo.
Straordinario commissario-higlander. Segno che anche nei ruoli da buono è perfetto.
Bravissima (doppiata da Lina Polito), razionale, e spietata nell'ultima parte.
Strepitoso il suo professore vesuviano che interpreta con luciferina potenza (ma merito anche all’ottimo Mariano Rigillo, che lo doppia). La sua acuta ed intelligente interpretazione impressione per subdola misura ed allo stesso per esaltata veemenza, straripa nell’istrionismo che gli è congeniale e stupisce, specie nel finale, nella sua crepuscolare discesa nella schizofrenia.
Esordio più che convincente. Straripante e misurata al contempo, appassionata e partecipe.
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