Regia di Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin vedi scheda film
Una ragazza borghese compie un percorso di autocoscienza: ripensa alla sua vita, ai rapporti con i familiari e il fidanzato, allo studio universitario e all’impegno politico. Tipico esempio del non-cinema praticato da Godard intorno al ’68 (e non sono neanche sicuro che sia l’esempio peggiore, a giudicare da come Farassino parla di Un film comme les autres): interminabili monologhi di un personaggio che fissa la telecamera, intermezzi con lo schermo completamente nero, intere sequenze che si ripetono. Trattandosi di non-cinema, meriterebbe in realtà un non-voto; e tuttavia mi sento di essere severo nei confronti di un regista che per anni ha sprecato il suo indubbio talento in cose come questa. Il suo pensiero è noto, e almeno brilla per chiarezza: “Il cinema deve andare dovunque. Bisogna fare un elenco dei posti dove il cinema non è arrivato e farcelo arrivare. Se non è arrivato nelle fabbriche, deve arrivare nelle fabbriche. Se non è arrivato nelle università, bisogna portarcelo. Se non è arrivato nei bordelli, bisogna portarlo nei bordelli. Il cinema deve lasciare i posti dove è e andare in quelli dove non è”. Ora, lasciando perdere confronti impietosi con ciò che in quegli stessi anni colleghi e connazionali di Godard facevano nei posti dove era il cinema (Baci rubati è del 1968, Il tagliagole e La mia notte con Maud del 1969), bisogna però dire che in queste premesse ideologiche si trovano i motivi di un fallimento. Il punto non era, e non è, portare il cinema da qualche parte ma usarlo nel modo dovuto: il cinema è racconto per immagini, usarlo come un saggio di sociologia non serve a diffonderlo presso un pubblico più ampio di quello che legge i saggi di sociologia. Gli sforzi di Godard saranno stati anche sinceri, ma assomigliano a quelli di un criceto che correndo muove la ruota della sua gabbietta.
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