Regia di Sydney Sibilia vedi scheda film
Solito discorso: è ancora la fame il tema su cui fonda il secondo capitolo di Smetto quando voglio, l’unico brand de’ noartri degli anni dieci. Come nella migliore tradizione nostrana, c’è un gruppo di disperati, costretti a mantenere la componente cialtrona malgrado i profili accademici, che trova il modo di svoltare in una maniera poco lecita. A renderlo un prodotto autonomo è paradossalmente la sua apparente mancanza di autonomia: citazionista fino all’esasperazione, ammiccante tanto alla commedia all’italiana quanto alle serie americane, ispirato al clima pulp degli anni novanta senza omettere le suggestioni di quel che resta del postmoderno, fino alle connessioni con le webserie romanocentriche. Volendo azzardare qualche titolo alla rinfusa: I soliti ignoti e Breaking Bad, Sette uomini d’oro e Snatch, Le iene e The Pills. Tutto questo apparato di cose già viste e prevedibili, che forse trova una figura ideale nella matrioska, diventa qui l’esaltate porto franco di una commedia, quella italiana, assolutamente incapace di andare al di là del remake sterile, della farsa trita, del ripiegamento in una realtà che non esiste.
Proponendo una variante della storia borderline del primo capitolo, sottolineata ancora dagli acidi ed alterati colori di Vladan Radovich, Masterclass non logora i già ben definiti caratteri perché offre loro una credibile ed economa occasione per proseguire la storia. Benché non sempre sappia gestire bene l’ingresso dei tre nuovi compagni di banda, limitandosi ad affidarli una serie di gag divertenti sebbene talora fini a se stesse, la sceneggiatura di Sydney Sibilia, Francesca Manieri e Luigi Di Capua lavora meglio sul contraltare legale rappresentato dall’ispettore Greta Scarano. In questo senso il film dà il meglio quando la vecchia banda è impegnata in operazioni folli (l’inseguimento nel sito archeologico) e nelle relazioni dell’ormai maturo Edoardo Leo con la poliziotta, un po’ di sapore americano e un po’ da poliziottesco comico (molto romano). Dacché si capisce che c’è una maggiore attenzione nei confronti del versante action, sancito dalla spettacolare sequenza del treno che però appare così forte proprio in virtù dell’elemento comico (gli assurdi mezzi di trasporto impiegati dalla banda).
Si è diffusamente parlato dell’importante operazione produttiva di derivazione americana (il terzo capitolo è stato girato in contemporanea e uscirà l’anno prossimo), dell’intuito commerciale di Matteo Rovere (l’autore dell’ottimo Veloce come il vento) in tandem con il rigenerato Domenico Procacci. Ma, al di là di tutto, è un immenso piacere godere, per esempio, della notevole sequenza del treno o del gustoso ancorché pretestuoso momento lisergico d’animazione. Sono chiari ricalchi di film che conosciamo a memoria, ma ci sono un’audacia e una temerarietà che dimostrano la resistenza di un cinema denso, piacione, popolare, ragionato, ruffiano studiato ma soprattutto vivo.
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