Regia di Carlo Vanzina vedi scheda film
Antonio è un imprenditorucolo napoletano i cui affari vengono danneggiati da un appalto truccato da un politico corrotto. Venuto a conoscenza della banca svizzera in cui il politico custodisce il suo tesoretto criminale, Antonio mette in atto il suo piano di vendetta.
Ennesimo capitolo della Storia d'Italia secondo i fratelli Vanzina. Carlo dirige, Enrico scrive insieme a lui il copione; ma gli argomenti rimangono sempre gli stessi, da decenni ormai: burini italioti, trogloditi maneggioni, zotici arricchiti e poveracci invidiosi si contendono sogni di gloria (e ricchezza e sesso e fama) fasulli. Tutti perdenti, come nella gloriosa commedia all'italiana, ma anche tutti malamente stereotipati, di una volgarità intrinseca e antipatici nel senso più ripugnante, non di quella antipatia sopra le righe tipica delle caratterizzazioni di Gassman e Sordi. I personaggi in questa pellicola sono quelli standard per i lavori dei figli di Steno: anche senza Christian De Sica può bastare Massimo Ghini a fare il romanastro e senza il milanese stordito Boldi c'è il napoletano intrallazzone Salemme (sullo spietato razzismo del titolo del film bisognerebbe aprire un discorso a parte: "non si ruba in casa dei ladri", cioè in questo caso di un napoletano - tragga ciascuno le proprie deduzioni); in ruoli di contorno troviamo poi Stefania Rocca, Maurizio Mattioli, Teco Celio, Manuela Arcuri e Lorenzo Balducci. La storia è il solito concentrato di banalità cafone, alla ricerca di luoghi comuni su cui puntare il dito, per trovare invece in definitiva qualche frivolezza estemporanea su cui sghignazzare e un concentrato di maleducazione, ignoranza e amoralità come nucleo solido della trama. E non certo per puntare contro il dito a tutto ciò, ma per fare spallucce al motto di "siamo italiani, che ci vuoi fare": tutti colpevoli, quindi tutti assolti. Questo tipo di cinema rappresenta una caricatura - una vaga somiglianza con la realtà sovrastata da iperboli delle deformità - dell'Italia, alla faccia delle esorbitanti pretese sociologiche costantemente denunciate con orgoglio dai suoi autori. 2/10.
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