Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Alla leggerezza con cui i giovani parlano di eternità si contrappone la pesantezza della vecchiaia, che è saldamente ancorata al passato, alle certezze accumulate in una vita, a una zavorra fatta di cose che niente e nessuno potrà mai cambiare. L’energia della verde età è un salto acrobatico proiettato verso un futuro che sembra infinito, mentre lo sguardo degli anni d’argento è fisso sul bilancio di un tempo concluso, e definitivamente immutabile. Laddove i ragazzi partono spensierati per una meta ignota, gli anziani si ritrovano alla fine del percorso, con le spalle al muro, confinati in quell’ultimo tratto di strada che non consente più di divagare. Davanti a loro non c’è più nulla, se non quello che oramai è stato; per questo i sogni del professor Borg non possono più essere desideri in codice, o misteriose premonizioni sul domani, ma solo verità precise e nitide, scolpite nella pietra. La sua solitudine non è un recipiente vuoto, bensì una dimensione colma di significati appartenenti ad un’epoca remota, come un museo popolato di statue di marmo, o un cassetto pieno di vecchie fotografie. I suoi pensieri sono impressi su un supporto rigido e obsoleto, inadattabile alle categorie del mondo presente; così i suoi tesori personali si rivelano una moneta preziosissima, che pure non si può più spendere. Il senso di ciò che resta morirà con lui, come la sterilità di suo figlio Ewald sembra volergli ricordare. I fiori che, da giovane, ha colto nel posto delle fragole, ormai sono stati sostituiti, e quelli nuovi sono troppo freschi per parlare di lui; invece quelli che spunteranno sulla sua tomba saranno intrecciati col ferro, come cimeli eterni e dalla foggia antica.
In questa regia di Bergman, la chiarezza ed il rigore formale sono, insieme con una luminosità fredda ed uniforme, i tratti di una implacabile durezza espressiva, come quella di una sentenza che non ammette appello, o di una conclusione che non consente alcun ragionevole margine di dubbio.
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