Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Alla ricerca delle fragole perdute. Le fragole come simbolo dei tempi fuggiti per dar spazio al presente. Peccato che il presente non è così piacevole. Lo si capisce sin dall’incubo che tormenta il vecchio professor Isak, il protagonista: un orologio privo di lancette, che segna un tempo, più che fermato, annullato; uomini senza volto che si sciolgono al primo sguardo umano; una strada linda e desolata; un carro funebre che traballa, da cui casca una bara che contiene il cadavere dello stesso Isak: la personificazione di una morte decrepita e glaciale. Ha 78 anni, Isak, un figlio sposato, una governante brontolona, una mamma vegliardissima. È un medico, gli stanno per dedicare il giubileo professionale per i suoi cinquant’anni di attività. Verso la meta si dirige in auto, accompagnato dalla nuora. È l’occasione per un esame spudorato sulla propria esistenza, attraverso ricordi e voci, pensieri e considerazioni, sussurri e grida, evocazioni di un passato lontano.
Road movie dell’anima, filtrato mediante la memoria e le emozioni di un personaggio complesso e tormentato. Con una costante imprescindibile, un fantasma neanche troppo spettrale che si presenta all’orizzonte di una vita vissuta nelle sue gioie e i suoi dolori: la morte. Preparato ad esso, pur curioso di scoprirla, Isak si rende conto che non può volare via senza risolvere i propri conti in sospeso. Prima che arrivi la Morte, già abitante del cinema bergmaniano ne Il settimo sigillo, c’è ancora la vita da vivere, e da capire. Rispetto al film precedente, questa è un’opera più serena: certamente è indubbia la matrice dolorosa, ma sono ben evidenti segni di speranza e di tranquillità, specie nella rappresentazione dei brulli paesaggi svedesi, e anche rintracciabili nella fotografia e nell’uso del colore. Mentre ne Il settimo sigillo spiccava il nero come simbolo della tetra discesa agli inferi esistenziali, ne Il posto delle fragole vince il bianco, il clamore puro e limpido di un racconto sicuramente non trasparente, eppure più naturale e delicato.
Riflessione su se stessi ispirata anche dal mondo circondante: quella del parlare de e con gli altri per parlare in realtà della propria interiorità è una tecnica che qui tocca le vette sublimi della coscienza. L’affollata solitudine (nel viaggio in auto imbarca tre ragazzi e una coppia infelice, specchio delle esperienze del protagonista) di Isak è rappresentata splendidamente da Victor Sjostrom, la cui memorabile interpretazione regala più di un momento di intensa suggestione – c’è sicuramente qualcosa del suo vissuto personale in questo medico un po’ angosciato. E la scena finale, che chiude un ciclo e ne apre un altro, non necessariamente legato alla morte, è l’inno alla vita più bello mai comparso sullo schermo.
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