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Il posto delle fragole

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Il posto delle fragole

di (spopola) 1726792
10 stelle

Il mio sentimento della vita si fonda nella salda persuasione che la solitudine non è per nulla qualcosa di raro o di singolare, qualcosa di peculiare solo a me e pochi altri uomini solitari, ma il fatto ineluttabile, centrale dell’esistenza umana. (Thomas Wolfe)

 

Smultronstället (Il posto delle fragole) è un’opera chiave nel percorso artistico in divenire di Bergman (forse fra tutte le sue realizzazioni cinematografiche, quella più sofferta  e personale)[1]. Un film che insomma  sembra voler dare (o indicare, che è sicuramente un termine più appropriato) una possibile (quanto incerta) soluzione proprio al problema della solitudine che è il concetto centrale (ma non l’unico) messo in campo insieme al presentimento della morte in agguato (che era già il leitmotiv della sua precedente fatica)  che accompagna questo viaggio verso Lund[2]: lo si evince già dal sogno angoscioso che apre la pellicola che contiene peraltro  espliciti riferimenti all’espressionismo (le strade deserte e sghembe della città sconosciuta e senza nome con la quale inizia l’incubo del protagonista ) e al surrealismo (la  progressione onirica delle immagini con cui viene costruito l’incubo: gli orologi senza lancette, un carro funebre che va a sbattere su un lampione, la bara che cade a terra e rivela che il volto del morto è quello del professore che osserva dall’esterno il suo corpo in decomposizione, l’uomo senza volto che si affloscia sul selciato, la mano che sembra uscire dal nulla che lo afferra per un braccio per attirarlo a sé).

Un altro capolavoro insomma (Orso d’oro a Berlino e premio FIPRESCI  a Venezia)[3] che non a caso viene immediatamente dopo l’allegoria metafisica de Il settimo sigillo (a sua volta premiato  dalla giuria al Festival di Cannes). Due opere realizzate  in stretta sequenza e quasi in contemporanea nel 1957 che hanno molte tematiche in comune che vanno ben oltre  quella della morte che incombe alla quale ho già accennato prima.

Si potrebbe dire allora che se Il settimo sigillo pur plasmato sul suo precedente testo teatrale (l’atto unico Pittura sul legno) ha al suo interno influenze che trovano spunti e riferimenti non solo nelle pitture medievali o  nel quadro di Picasso che rappresenta due acrobati, due buffoni  e un ragazzo  e nel dipinto di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, ma anche addirittura nei Carmina Burana [4]di Carl Orf, ne Il posto delle fragole (soprattutto nelle parti oniriche) ci si ritrova invece soprattutto l’eco di altre pellicole realizzate da altrettanti grandi registi quali  Dreyer  (Il Vampiro e La passione di Giovanna d’arco),  Clair (Entr’act) e persino quello di Murnau per certi campi lunghi che rimandano a Nosferatu.

Secondo Jacques Mandelbaun, “un’opera che sta al regista  come la madeleine sta a Marcel Proust” poiché come nel poderoso affresco letterario del grande scrittore francese, anche in questa pellicola si assiste a un’accorata ricerca del tempo perduto seguendo una dinamica narrativa molto simile. Ovviamente le suggestioni letterarie e filosofiche di riferimento sono molto più articolate e varie a partire dal sempre imprescindibile Kierkegard (l’elenco però sarebbe troppo lungo e dunque mi astengo dal farlo perché il parlarne diventerebbe troppo complesso e rischierebbe di farmi perdere il filo del discorso). Mi limito dunque a sottolineare il fatto che la critica francese ci lesse addirittura sotterranei riferimenti all’esistenzialismo (l’inferno sono gli altri vi suggerisce qualcosa?)[5]

Se ci si sofferma poi sulla figura di Isak Borg il pensare a Musil e al suo L’uomo senza qualità è inevitabile (ma si può leggere fra le righe anche qualche riferimento a Svevo).

Bergman si è poi certamente ricordato anche (al di là di quelli che sono i suoi numi tutelari  in campo cinematografico) di un altro importante film svedese, quel Giovanotto, godi la tua giovinezza diretto da Peter Lindberg e passato dalla mostra di Venezia nel 1939  (credo che fosse proprio la prima edizione) che poneva già il dilemma dell’esistenza o meno di Dio, del panteismo,  del problema della vita e della morte oltre che dell’egoismo connaturato all’essenza stessa della religione non disgiunta dalla pratica della stregoneria che sfocia nella superstizione.

Parlando in termini processuali, tutto questo ci permette di comprendere perfettamente le fondate ragioni dell’accusa  (l’aridità di una vita rigida, la rivelazione di un concetto d’onestà scostante ed egocentrico come un vizio, il sentore del tempo che è passato senza essere stato veramente vissuto, la dissoluzione) e il conseguente verdetto  di condanna che,  come abbiamo visto in apertura, è proprio quello della solitudine (ricercata, ma anche imposta dal proprio egoismo rinunciatario) poiché la scienza (in questo caso la medicina freddamente applicata) da sola non basta (non può bastare) a riempire i vuoti dell’esistenza e degli affetti da sempre trascurati.

 

Provo un desiderio incredibile di esprimere attraverso il film (ogni film che faccio) ciò che in maniera tutta soggettiva, si forma in qualche parte della mia coscienza. Cerco insomma di dire la verità sulla condizione degli uomini, la verità come la vedo io (Ingmar Bergman).

 

In questa sua opera Bergman predilige l’utilizzo del monologo interiore, ma  sceglie anche di spiegare molte cose (lasciando comunque allo spettatore la libertà dell’interpretazione) attraverso la simbologia codificata dei sogni (interpretabili in chiave psicoanalitico/freudiana) e i tanti emblematici episodi  relativi agli incontri racchiusi dentro un trasferimento in auto che dura una sola giornata che sembra però dilatarsi all’infinito (esattamente come aveva fatto Joyce con il suo Ulisse) perché il tempo qui  è ovviamente quello bergmaniano che può e deve differenziarsi da quello del reale.

Una procedura utilizzata magnificamente per mettere a fuoco in un tempo così ristretto, le tante inadempienze accumulate dal protagonista nel corso della propria esistenza e che lentamente riemergono  un poco affastellate a reclamare una (im)possibile redenzione dalle responsabilità e dalle colpe.

In genere si pensa che  qualunque cosa sia successa in precedenza, anche la più negativa, finisca per cercare una possibile riconciliazione con se stessi (una specie di autoassoluzione in extremis) solo nel momento del trapasso, e forse è vero, ma questo però non vale per il nostro protagonista che comincia a fare il suo disastroso bilancio molto prima che scocchi davvero “l’ora fatale”, anche se stimolato da quel sogno premonitore che in qualche modo gli ricorda che il suo tempo sta per finire (l’orologio senza più lancette) o che ce n’è rimasto molto poco per provare a rimediare prima che sia davvero troppo tardi.

Le tappe del viaggio procedono cosi in parallelo alla rappresentazione dei  ricordi di gioventù dell’anziano professore che si materializzano attraverso le assonanze(potremmo definire provocazioni?) scaturite dagli incontri che punteggiano il percorso di avvicinamento a Lund che è, al tempo stesso, da una parte una proiezione che spinge la metafora  verso il sempre più vicino termine della vita, e dall’altra invece, quasi un nostalgico e inevitabile ritorno alle proprie origini.

Proprio per questa sua dualità si può dire infatti (e cito ancora Mandelbaun) che il film  scorre come il nastro fantomatico di un sogno in una dimensione spazio-temporale scomposta che permette a Bergman di saldare il debito con i suoi due padri spirituali, Strindberg e Sjöström (che morirà tre anni dopo la fine delle riprese all’età di 81 anni e che qui è coinvolto  addirittura in prima persona a fare la sua parte nelle vesti di uno splendido e consumato attore dal quale è possibile pretendere la perfezione nella definizione della sfaccettata e sofferta figura del protagonista della storia).

 

Andando nel concreto, il film racconta l’odissea spirituale e geografica di Isak Borg (nome che in svedese significa - più o meno - “fortezza di ghiaccio”), un anziano professore di medicina che parte da Stoccolma per andare a ritirare un’onorificenza accademica che gli sarà conferita nell’aula magna della  sua università di Lund. Lo accompagna nel viaggio la nuora Marianne (Ingrid Thulin) in procinto di lasciare il marito (Gunnar Björnstrand) che, emotivamente, è perfino più freddo e distaccato di suo padre.

Nel loro tragitto di avvicinamento alla meta da raggiungere, Borg si imbatte in vari personaggi  (fra cui Sara e i suoi due giovani spasimanti che a loro volta indagano e si scontrano sull’esistenza o meno di Dio). Sara (Bibi Andersson) è una giovane ed esuberante  autostoppista che ricorda all’uomo il suo primo (perduto) amore (hanno  entrambe persino lo stesso nome) e la cui presenza (insieme alla visita che farà alla vecchia madre e al lungo confronto che avrà col proprio figlio) costituirà la spinta che induce l’uomo a  rivisitare e reinterpretare la propria vita attraverso ricordi, sogni e conversazioni.

Via via che il viaggio procede, Borg comincia così a comprendere che la sua rettitudine autodifensiva e la dedizione al lavoro che hanno caratterizzato il suo percorso esistenziale, non solo hanno limitato le sue esperienze e ferito gli altri, ma hanno anche influenzato in negativo l’atteggiamento di suo figlio  Evald nei confronti della vita (la sua cinica misantropia è indubbiamente  conseguenza dell’educazione paterna ricevuta che non a caso lo porta a sua volta a rifiutare il ruolo di genitore)  e condizionato pesantemente anche  l’esistenza di sua nuora Marianne  che a causa della chiusura mentale del  marito, non riesce ad accettare con serenità l’idea della sua prossima maternità che è poi la causa del dissidio coniugale.

Emerge insomma dal suo inconscio, tutto lo squallore di una vita talmente rigida e fredda da aver soffocato ogni slancio emozionale.

 

Bergman traccia dunque  la mappa del viaggio di Borg come un percorso verso la conoscenza (o la riscoperta) di sé, con mezzi e procedure molto differenziate (incubi espressionisti, ricordi lirici , dramma naturalistico e satira moderata, appunto) senza mai scadere però nel sentimentalismo (o peggio ancora, nel didascalismo). Di conseguenza, quando alla fine dopo aver ritirato il premio riceve il saluto della buonanotte prima dalla propria riservata governante, poi dall’allegra Sara e finalmente dal figlio e da Marianne che – finalmente riconciliati - hanno deciso di restare insieme, l’uomo sembra aver riconquistato almeno un briciolo di tranquillità (forse solo l’estrema conciliazione possibile fra rassegnazione e speranza) al termine di una giornata  faticosa che gli ha fornito l’opportunità di ritornare col pensiero non solo  ai propri genitori, a suo fratello, al primo amore e ai magici, idilliaci moment dell’infanzia, ma anche al matrimonio e alla successiva scoperta del tradimento della moglie.

Capiamo così che Borg anche se non l’ha ancora pienamente raggiunta, è comunque sulla via di arrivare a quella riappacificazione redentiva della quale ormai avverte un estremo bisogno. La sua raggiante, distesa espressione conclusiva, sembra infatti  voler comunicare  allo spettatore che finalmente ha ritrovato il suo “posto delle fragole” (materialmente un luogo mitizzato ma che esiste ancora presso la casa della madre).

Cosa sia di fatto nell’economia della storia quel “posto delle fragole” viene magistralmente definito da Tino Ranieri nella sua monografia sul regista con queste bellissime parole: “ma che cos’è il posto delle fragole? E’ quel rientrante del proprio passato che tutti posseggono nel segreto degli anni giovanili, il luogo in cui per la prima volta ci si accorge che la vita è un bilancio d’azioni, che persino la felicità rende malinconici, che l’amore fa male, che l’inganno esistenziale giunge sempre dalla parte da cui non lo si attende. E’ il luogo della prima delusione, che generalmente non è la più amara, ma la più memorabile. E’ soprattutto il recesso in cui facciamo delle promesse a noi stessi che il tempo s’incarica di deviare o cancellare”.

 

Fondamentale è l’apporto  fornito proprio da Sjöström grazie alla sua magistrale interpretazione  che riesce  a mantenere a un livello di assoluta eccellenza per tutta la durata della pellicola senza alcuna sbavatura o cedimento, cosa questa che solo i grandi attori  sono in grado di garantire, così coerente con l’impostazione registica,  da non suscitare mai nemmeno per un attimo nello spettatore  un moto di compassione gratuita (che qui sarebbe stato  assolutamente deleterio) per il personaggio che è stato chiamato a rappresentare sullo schermo.

Ed è proprio attraverso l’analisi di questa figura che si intravedono le tracce in filigrana dell’autobiografia, poichè è facile immaginare che in quel vecchio professore Bergman possa avere in effetti riverberato per una piccola parte se stesso (lo denunciano le iniziali del nome dato al personaggio, Isak Borg che sono le stesse del nome e cognome del regista) e per il resto (quella più preponderante) la figura di suo padre (a lungo da lui esecrata) come se  l’evocazione della sua morte permettesse al regista una tardiva riconciliazione sicuramente anelata se  nel suo libro Lanterna magica parlando del proprio genitore ormai defunto, ha scritto queste parole: penso a lui da una disperata lontananza, ma senza tenerezza (…)e questo acuisce il desiderio  che qualcosa riesca finalmente a toccarmi, che mi induca finalmente a versare qualche tardiva lacrima per la sua dipartita.

 

La forza del racconto, sta nel modo in cui Bergman riesce a combinare (e a tenerle insieme) la realtà oggettiva della vita di Borg con quella soggettiva. Non sono solo i suoi sogni e i suoi ricordi che ce lo fanno comprendere  nel loro amalgamarsi perfettamente con il resto, ma anche i vari incontri e le conversazioni che intrattiene. Marianne per esempio, seppure con tatto e affetto, è abbastanza esplicita nell’alludere alle mancanze del suocero (e sicuramente apre così un ulteriore spiraglio di conoscenza)  mentre la coppia litigiosa (un altro degli incontri del percorso di viaggio)  lo fa riflettere sul suo carattere burbero e scostante e intravedere anche quale potrebbe essere il futuro di sua nuora se dovesse rimanere legata a suo figlio Evald, mentre la solare presenza di Sara lo riporta alla sua giovinezza più passionale. La cosa straordinaria sta però nel fatto che il regista non fa mai slittare questa  conclusione  un po’ più rassicurante del suo solito, in direzione di una pateticità sdolcinata sia pure di facciata.

 

Credo che l’ispirazione sia  un’idea romantica,  un’idea un po’ peregrina  che  tutte le cose vengano da Dio. Ma se non si crede in nessun Dio, se si crede semplicemente nel proprio lavoro e non nell’ispirazione, si crede - e nessuno potrà mai contraddirci - che tutto sia racchiuso invece nella propria personale capacità creatrice, nell’esperienza, nell’applicarsi (Ingmar Bergman)

 

Riflessione sulle diverse età dell’uomo e amara meditazione sulla vecchiaia da parte di un regista allora appena quarantenne  ma in vena di bilanci, il film è una vera e propria summa di tutte le tematiche bergmaniane: ad alcune ho già accennato prima, aggiungo adesso che qui ci sono anche quelle dell’amore come delusione e rinascita, delle perplessità religiose (Trasatti  - col gusto del paradosso - definirà il regista “un ateo cristiano”), dell’interesse per la psicologia femminile, della gioia cercata (e trovata) nelle piccole vicende di ogni giorno.

Sono dunque  tutte queste componenti che fanno procedere il racconto (davvero eccezionale la tecnica del regista, il suo dominio perfetto su recitazione, paesaggio, luce e silenzi) nell’insolita dimensione  di una fiaba edificante ma dalla portata altamente drammatica (non tragica però perchè qui – come ho già detto prima - esistono ancora barlumi di speranza: il pessimismo cosmico di Bergman si concretizzerà  solo negli  anni successivi  trovando radici sempre più profonde e irreversibili).

Anche se presenta già la spiazzante prerogativa (che si consoliderà meglio nelle opere che verranno dopo) dei salti di tono e delle spezzature sintattiche  che solo nel finale si  placheranno ricomponendo il tutto in un ritmo di nuovo lento e pacificato, Il linguaggio utilizzato lo si può definire abbastanza lineare. La costruzione dell’insieme (sorretta da una sceneggiatura a prova di bomba) è a sua volta impeccabile nel suo continuo intrecciare realtà, sogni e ricordi che si incastrano fra loro senza soluzione di continuità.

Fanno il resto, il duro bianco e nero di Gunnar Fischer, la “sussurrata” musica della colonna sonora di Erik Nordgren, la sensibile interpretazione di tutti i bravissimi attori (un plauso speciale va alla bella prova di Juliane Kindahi – la governante del professore - che sovrasta tutte le altre insieme a quella - e volentieri mi ripeto - davvero straordinaria di Victor Sjöström   che col suo cinema ha molto influenzato il percorso artistico di Bergman  e che qui, accettando questo difficile ruolo, sembra proprio che abbia inteso fare un regalo al suo discepolo (quasi un passaggio simbolico di testimone).

La morbida alternanza di presente e passato, l’ombra costante  di una vita che sta svanendo e che, forse, non merita rimpianto, rendono dunque  questa pellicola una vera e propria opera d’arte  assoluta e irripetibile poiché davvero, Il posto delle fragole è anche un film sul tempo, sul cambiamento, sulla paura, sulla maschera (Giorgio Trasatti) che è un altro dei riferimenti certi all’infanzia infelice del regista che nella sua autobiografia scrisse: (…) La famiglia di un prete vive come su un vassoio, senza alcuna protezione dagli sguardi estranei… Forgiai per questo una personalità esteriore che aveva ben poco a che fare  con il mio vero io. Non riuscendo a tenere separate la mia maschera e la mia persona, ne risentii il danno fin nella vita e nella creatività dell’età adulta. A volte dovevo consolarmi dicendo che chi è vissuto nella menzogna ama la verità. E questo è veramente un film “vero” e partecipato fino in fondo.

 

[1] La lavorazione del film produsse nel regista una grave forma di esaurimento nervoso che lo costrinse addirittura a passare alcuni mesi in clinica prima di poter tornare al proprio mondo.

 

[2] Lund è un’importante cittadina svedese nota soprattutto per l’Università fondata nel 1666 e per la Cattedrale all’interno della quale Bergman ha ambientato l’ultima parte del film, quella in cui si celebra il giubileo della professione medica del protagonista, il professore Isak Borg.

 

[3] Non sono però solo questi due i premi  che si è aggiudicato il film: l’elenco sarebbe davvero molto lungo, ma voglio ricordare almeno il Golden Globe della stampa estera,  il premio  del National Board Review statunitense, il Bodil (importante riconoscimento danese  corrispondente all’Oscar) per il miglior film europeo, il gran premio della cinematografia  norvegese, il premio dell’associazione dei critici britannici, il nastro d’argento della critica italiana  e il primo premio al festival argentino del Mar della Plata oltre alla nomination all'Oscar nella categoria " miglior sceneggiatura origimale"

 

[4]Carmina Burana  messi in musica da Carl Orf, costituiscono un corpus di testi poetici medievali dell'XI e del XII secolo, prevalentemente in latino tramandati da un importante manoscritto contenuto in un codice miniato del XIII secolo, il Codex Latinus Monacensis 4660 o Codex Buranus, proveniente dal convento di Benediktbeurn (l'antica Bura Sancti Benedicti fondata attorno al 740 da San Bonifacio nei pressi di Bad Tolz in Baviera). Il codice è custodito nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera. (fonte Wikipedia).

 

[5] “L’inferno è il solito: la solitudine”, dice  un personaggio di questo film, riprendendo con qualche variazione una battuta che era già ne Una vampata d’amore (siamo di nuovo insieme, ma è l’inferno stavolta) e quindi possiamo convenire anche noi che siamo davvero a due passi da quel “L’inferno sono gli altri”  sartriano (Huis close – A porte chiuse o anche Porta chiusa in italiano).

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